Un risveglio post atomico, dopo una di quelle notti passate a bere come se non ci fosse un domani. E sarebbe meglio non arrivasse, questo domani.
Invece il domani arriva, inesorabile, portando con sé gli strascichi di una sbronza devastante.
Mi trascino per casa alla ricerca disperata di un Maalox. Guardo dappertutto, respiro come Galeazzi. L’alito desertificherebbe quel che resta dell’Amazzonia in pochi attimi, meglio non farlo sapere alle lobby del mattone.
Dove cazzo è il Maalox?! Esattamente dove dovrebbe essere, solo che ci hai guardato alla fine.
Succhio avidamente la preziosa pastiglia, ma ha l’efficacia di una caramella Iodosan su una gola degli anni ’80 scartavetrata dalle bestemmie allo stadio, quando vorresti che ti donasse la potenza vocale di Pavarotti. Ma in quel caso si trattava di diaframma, l’ho capito molti anni dopo.
Il percorso trasversale tra i migliori bar in cui si fanno discorsi da bar della città era iniziato il pomeriggio prima. Niente di preparato, solo il subconscio credo lo sapesse, col senno di poi. Hai contattato una certa persona, sai come va a finire.
Ehi ciao! E’ un po’ che non ci si vede, ti va un caffè?
Come no, certo! Mi passi a prendere?
Arrivo.
Un caffè.
E’ così che si dice, per far finta di non sapere quello che sta per succedere.
Sono le sei del pomeriggio in uno dei bar di periferia storici più famosi della città. Il caffè fa schifo, ma sulla mensola scorgo una bottiglia di acquavite Nardini di Bassano del Grappa. La migliore tra le peggiori, suggerisce il mio fegato.
La sorseggio mentre fisso con lo sguardo colmo di lussuria la barista diversi anni più giovane di me. Voci informate decantano sottovoce al mio orecchio le abilità orali della tizia. Una fama guadagnata, come al solito, negli anni del liceo.
Nello schermo alle mie spalle, Matteo Renzi trasmesso in diretta incanta una platea barese con uno dei suoi soliloqui in penombra carichi di enfasi, con quel tono solenne che si usa quando un bambino ti fa una domanda scomoda a cui non puoi dare risposta e ti inventi una cazzata raccontandola in modo da farla sembrare vera. Mi giro un attimo, la telecamera inquadra la sua faccia. Non avevo mai fatto caso a quanto sputasse mentre parla. Non deve essere piacevole stargli di fronte.
“Dobbiamo ridare speranza al paese!”
Stronzate a mille. Davanti a Renzi la mia fede cieca nel garantismo vacilla e la filosofia da bar prende il sopravvento.
Mi rigiro, isolo l’audio de i’ Renzi, e mi concentro sulle natiche sode e tornite della barista.
“Enno de mogano!!”, direbbe un tale di Perugia.
Sotto quelli che solo fino a pochi anni fa si chiamavano fuseaux si intravedono le mutandine. Quando sono ormai sul punto di farmela sul bancone, il mio amico mi tira per un braccio e mi trascina via. Ha avuto un tale tempismo che gli ho domandato se stesse visualizzando il mio film.
In piena notte, stremato da un miscuglio rabbioso di alcolici, mi ritrovo in un bar del centro da poco gestito da un ragazzo cinese. Il primo cinese ad avere un’attività del genere in questa sonnolente cittadina, gioiello di architettura rupestre candidata a capitale europea della cultura. I dirigenti locali pensano che per cultura si intenda vivere in una città esteticamente bella e farci qualche evento ogni tanto, recuperando la maggior quantità possibile di endorsement da personaggi famosi.
Chiedo al ragazzo cinese di darmi due cicchetti di quelle grappe con l’etichetta appunto in cinese. Mi spiega che una è di riso e una è di rose, e di non preoccuparmi che dietro c’è anche scritto in italiano. Ma io in italiano ho letto solo ‘importato da’. Comunque, non sarebbe stato quello il problema. Il problema è stato il conato di vomito conseguente alla grappa di rose, che mi ha colto mentre pensavo che distillando uno zampirone si otterrebbe un liquido dal sapore molto simile. Meno male che poco prima io e il mio amico avevamo fatto una scelta salutista, dividendoci un solo kebab, “perché uno intero, dai, fa male”.
Lasciamo anche questo bar, che le solite voci informate accusano di aver *rubato* tutta una clientela di tossici a quello di fronte, abbassando i prezzi già impossibili da sostenere se dentro certe bottiglie c’è davvero il liquido che dicono di contenere, e ci avviamo senza alcun motivo verso un posto molto periferico a prendere, giustamente, un amaro.
Nel bar noto subito uno strano via vai dal bagno di gente sulla quarantina che si stava distruggendo di amari e consumando le mani sui videopoker. Facce contratte dalla mandibola serrata.
Proprio l’ambientino che cercavo, penso tra me e me.
Mi presentano un ragazzo albanese perfettamente integrato e a suo agio nella situazione. Ho con lui la conversazione più assurda della mia vita. In pratica, lui ritiene giusto che a uno straniero non si debba dare la cittadinanza della nazione in cui vive. E infatti, nonostante viva in italia da 22 anni, non ce l’ha, non la chiede, non la vuole. Perché lui non è italiano, è albanese. Gli ho fatto presente che non è che se prende la cittadinanza diventa italiano e perde l’albanesità. Rimane sempre albanese, o quello che vuole lui. E’ semplicemente una questione di diritto, per avere le stesse possibilità che hanno tutte le persone della comunità in cui vive. “Io sono straniero e devo essere trattato per quello che sono, uno straniero. E’ giusto che il governo italiano dia la precedenza agli italiani”.
Vado via senza salutarlo, forse sbaglio, ma sono proprio spiazzato. Non posso controbattere.
Mentre tento di infilarmi in un letto che sfugge, dodici ore dopo la prima grappa, penso ai dati dell’indagine Ocse sulle competenze dei cittadini adulti. Non male, in fin dei conti c’è ancora un buon 30% di persone in grado di comprendere un testo scritto.
Riesco finalmente ad immobilizzare il letto e stendermi. L’ultimo pensiero, prima di svenire, ritorna indietro di qualche settimana, su un’osservazione geniale fatta da un amico di un amico in spiaggia. “… Che poi ‘sta storia degli illuministi, di Voltaire, che anche se non sono d’accordo con quello che dici morirei per permetterti di dirlo, mi ha proprio rotto il cazzo. Se tu stai dicendo una stronzata colossale, io te lo devo impedire, non devi dirlo. E basta!”.
C’è un limite al relativismo.
L'articolo Le notti franke è ovviamente opera di Frankezze.