«Notti magiche, inseguendo un gol,
sotto il cielo di un'estate italiana,
e negli occhi tuoi voglia di vincere,
un'estate, un'avventura in più... »
Il Mondiale arrivò l’estate del 1990. Per quell’occasione il grande compositore originario della Val Gardena Giorgio Moroder, genio pluripremiato agli oscar, tirò fuori dal cilindro il brano Un’estate italiana (anche conosciuta come Notti Magiche). Fu la colonna sonora di quel mese insonne d’inizio estate, quando dall’otto di giugno all’otto di luglio l’Italia ospitò il campionato mondiale di calcio.
Riascoltando la canzone cuore e mente viaggiano nella memoria, laggiù, venticinque anni fa, quando ero un gagno biondo di nove anni e attorno a me l’atmosfera delle luci dello spettacolo del calcio planetario scaldava la Nazione.
Che kermesse! Che giri d’affari! Che opere!
La mascotte scelta fu Ciao, un omino verde bianco rosso. Sembrava messo assieme con mattoncini di Lego e come testa aveva un pallone. Brutto ad una prima vista di occhi superficiali, molto più interessante ad un esame più maturo.
Il papà di Ciao è l’artista Lucio Boscardin, di scuola neofuturista. Il suo progetto vinse su altre 50.000 proposte.
Bella storia la sua, sbaragliò studi prestigiosi di star designer e senza quel tipico modus operandi italiota di conoscenze, intrallazzi, cattive amicizie, raccomandazioni nell’orecchio.
L’arte di Lucio Boscardin viene intesa come movimento e anche le sue opere riflettono questa idea di pittura dinamica. Il quadro o la scultura si muovono, prendono diverse forme. Anche Ciao si muove, i suoi arti in pezzi vanno a formare la meravigliosa scritta ITALIA.
A Boscardin il lampo di genio venne ad un semaforo, il tricolore ad intermittenza gli suggerì la bandiera nella scultura plastica.
L’effige della mascotte comparve ovunque nella primavera estate 1990; una diffusione virulenta e quasi da simbolo totalitario. Su accendini, sui poster, sulle t-shirt, come fermacarte, nei detersivi, sugli orologi, sulle cravatte, sulle spille, sui palloni, sulle felpe, persino sulle auto FIAT.
In un’ultima analisi, allora, è molto più bello il nostro amico futurista Ciao che altra paccottiglia di babacci e peluche senza spina dorsale e più adatti ai menù del Mc Donald che a far da ambasciatori di creatività e sport.
Era dal 1934 che non ospitavamo un Mondiale. Da cittadelle televisive alle sale stampa, dalle tribune ai carrozzoni antennati, dalle ferrovie ai computer, dagli aeroporti agli alberghi, dai centri sportivi ai grandi stadi, tutto fu tirato a lucido, modernizzato, costruito, innalzato in onore della Coppa del Mondo.
La tecnologia delle telecomunicazioni era all’avanguardia, quella sì che era una vera occasione per far vedere al mondo l’efficienza del progresso del nostro sistema.
Correvamo. Con il fiato corto a tirar su le grandi cattedrali del dio pallone per i riti del campo verde con righe bianche e reti da violare in cannonate su punizione, di testa, di sinistro, di destro, di contropiede, dal dischetto.
Già, le cattedrali-stadio del dio pallone: prendevano forma con l’Astronave di San Nicola di Bari progettato da Renzo Piano, con le radicali ristrutturazioni di Marassi di Genova, di San Siro di Milano, dell’Olimpico di Roma, di Cagliari, Udine, Napoli, Palermo, Verona, Bologna, Firenze.
E naturalmente il Delle Alpi di Torino, eretto dalla società Acqua Marcia di Roma su progetto dello Studio Hutter, struttura al primo colpo d’occhio avveniristica, certo, ma nata malformata.
Ci tenevamo a far vedere che eravamo bravi agli occhi del mondo; e bravi in molti aspetti lo eravamo per davvero, tante cose venivano stimate dallo straniero. La moda, ad esempio. Nella cerimonia di apertura ecco che sfilavano i capi di Valentino, Ferré, Missoni.
Poi nel design, nelle tecnologie, nei trasporti, nell’industria, nell’edilizia, nell’architettura, nell’arte, nello sport, nella cucina, nell’ospitalità, nell’organizzazione, nel lusso, nel benessere di una nazione ambiziosa e moderna.
Questi italiani, così simpatici ma anche in gamba!
Prima partita fu il pomeriggio dell’otto giugno al Meazza di Milano dove la sorpresa Camerun infilzò l’Argentina di Maradona, e la sera dell’indomani fu il debutto dell’Italia di Azeglio Vicini con Totò-gol, alias Salvatore Schillaci all’inizio della sua corsa per diventare capocannoniere di Italia ’90.
Ma veniamo a cosa davvero ci interessa. Andiamo a Torino, in quel caldo giugno di sport e passione. Gruppo C, Torino e Genova ospitanti.
Brasile Seleção, l’esordiente assoluta Costa Rica, le cornamuse di Scozia, i vichinghi di Svezia.
Si aprì il sipario al Delle Alpi.
Wow!
Bello, sì,sì.
Modernissimo, non si discute.
Non è che si vede benissimo, però.
Brasile – Svezia, 10 giugno alle ore 21, 63.277 posti paganti, il tutto esaurito. Fuori, i bagarini ronzavano sul miele.
I biglietti sotto banco arrivavano a costare fino a mezzo milione di lire. Sopra i potenti della tribuna vip, si sedettero i potentissimi dei palchi d’onore. I fratelli Giovanni e Umberto Agnelli, i principi industriali della città con i loro satrapi dell’impero Romiti, Chiusano e Luca Cordero di Montezemolo, capo dell’organizzazione di tutto il ricco baraccone mondiale.
Dalla Liguria invece, erano arrivati i convogli speciali con 7.000 carioca in festa con bandiere, trombette, allegria. Gli svedesi sfoggiavano braghe corte e nordici camper scesi dal Valhalla.
Il prefetto ordinò severo: non si beve in città nei giorni delle partite. Bar, ristoranti, chioschi erano poco d’accordo. Il Ministero degli Interni intervenne con un suggerimento: va bene il divieto ma meglio se solo entro precise fasce orarie, così da non bastonare troppo il commercio di vini, birra, liquori, i tre elementi liquidi che avrebbero voluto scorrere liberi e felici in torrenti in piena.
Il match fu vinto dai brasiliani per 2 a 1 con doppietta di Careca, attaccante di quel Napoli fortissimo e maradoniano vincitore dello scudetto 1989-90. Torino scoprì la festa brasileira, San Carlo diventò balera, la torcida conquistò il centro.
La folla chiassosa marciò a passi di samba in quei giorni di festa sotto il monumento del Caval ‘d brôns di Emanuele Filiberto e Palazzo Madama.
Ovunque sventolavano i vessilli verdi con rombo giallo e il cerchio blu, con le stelle del cielo di Rio de Janeiro, i 27 stati federali fasciati dalla scritta Ordem e Progresso.
Il verde dell’Amazzonia in Via Roma, il giallo dell’oro sotto i balconi di Via Garibaldi, le stelle di Rio a brillare sulle finestre di Palazzo Reale.
C’era sarabanda fino a tarda notte, grida, urla, fischietti, tricchete-tracchete, ma non accaddero risse, ubriacature moleste, scontri, teppismo, nasi rotti, manganelli come a Cagliari infiltrata da feccia hooligan inglese e Milano assaltata da crucchi ciucchi marci.
Noi torinesi fummo più fortunati, persino gli svedesi sconfitti scesero in piazza con gli avversari a piantare un sano ciadél.
Il 16 giugno il Brasile tornò in campo contro la matricola Costa Rica. Prestazione fiacca, i sudamericani vinsero sui centroamericani per un’autorete del costaricano Montero che deviò la palla su un tiro di Müller, all’epoca attaccante granata.
Il carro del Trio Electrico faceva ambasciata di carnevale tra le vie; alé di nuovo Samba e Lambada ad alto volume, euforia, tette al vento.
Mentre le luci della festa del gol rendevano le piazze stroboscopiche, la cronaca cittadina ci racconta la miseria dei margini di quegli anni.
Droga pesante, scippi, furti, spacciatori, violenza: l’eroina che ammazzava.
La scia degli ’80 tossici viveva ancora parassita tra i miserabili suicidi lenti.
“Se le panchine sono piene di gente che sta male”, cantava Battiato dieci anni prima, e le panchine sabaude erano ancora piene di gente che stava male ancora, dieci anni dopo.
Nella tarda sera della sfida del Nuovo Mondo, un giovane con la ragazza chiamò un taxi a Barriera di Milano.
Una volta a bordo, il tossico tirò fuori la lama per farsi dare i soldi dal tassista.
L’autista non prese il portafoglio ma una pistola che usò subito per freddare Roberto Pollidoro sul sedile posteriore. La storia del ragazzo narra di una famiglia disperata, di buchi, di vene avvelenate, di furti, di piccola delinquenza, di fratelli anche loro bruciati, di dannazione in terra. Una storia come tante in quegli anni.
Era destino già scritto per la città, a giugno si dormiva poco. Oltre alle vittorie delle squadre del girone C, uscirono di casa anche gli immigrati d’Africa a gioire nella notte. Il pareggio dell’Egitto con lo squadrone d’Olanda campione d’Europa in carica - e forte del trio olandese del Milan di Sacchi (il trittico Ruud Gullit, Frank Rijkaard, Marco van Basten) - esaltò la comunità egiziana, e ci mancherebbe, non era mica roba da tutti i giorni.
Ma si fecero sentire molto anche gli africani equatoriali: il Camerun vinceva il Gruppo B sull’Argentina e sulla Romania e si mostrava una squadra di leoni affamati di gloria.
L’impresa fu festeggiata non solo dai camerunensi immigrati in Piemonte ma da tutti i neri in generale della metropoli, che vedevano nello sport di massa un simbolo di riscatto del Continente Nero.
I Murazzi, allora tradizionale punto di ritrovo delle comunità afro, si scatenarono.
Le prodezze dei nostri azzurri però, furono quelle che naturalmente accesero di più gli animi, e come in tutta la Penisola anche Torino si diede da fare nell’esultanza del dopo partita, quando le truppe tifose spegnevano i tivvùcolour e si alzavano dai divani per sfociare nelle strade coi clacson pigiati.
L’Italia che vinse contro l’Austria, l’Italia che vinse contro gli Stati Uniti, l’Italia che vinse contro la Cecoslovacchia con il tandem-gol Schillaci-Baggio.
Tra i palazzi barocchi rimbombavano le note dell’inno, peccato però esser patriottici e sbandieratori di tricolore solo una volta ogni quattro anni.
I telefoni dei civich e dei caramba squillavano durante quelle notti di divertente cagnara, di schiamazzi e frastuono. Carambole di auto dai clacson urlanti contro le secchiate d’acqua dalle finestre dei quieti.
Le vecchie e i travet volevano dormire; fatti loro, non si può mica multare il tifo.
Delle Alpi, 20 giugno, Brasile – Scozia 1 a 0, gol di quel Müller che Torino conosceva bene. Sugli spalti dello stadio, gli scozzesi se ne stavano gomito a gomito con i brasiliani eppure non ci furono incidenti, le facce pallide del nord del vallo di Adriano facevano casino assieme all’Armata Lambada.
Gli scozzesi scesi giù si fecero subito riconoscere per il classico stereotipo importato dalle Highlands. Quindi cornamuse, kilt, birra.
Era la Tartan Army che in un pomeriggio di gran arsura si lasciò andare ad un bidet scozzese nella fontana di piazza Carlo Felice.
Vennero gli ottavi di finale. Torino, 24 giugno 1990. Brasile – Argentina. Una di quelle sfide da tener incollati alle tv un paio di miliardi di esseri umani. Il super calcio mondiale era Torino quel giorno.
Diego Armando aveva la caviglia sinistra messa male, urgeva una puntura di novocaina, ma il Pibe de Oro riuscì lo stesso a fornire l’assist magnifico al collega di gioco e di serate Claudio Caniggia, el Hijo del viento, che violò la rete con l’uno a zero risolutivo.
Ahi, ahi gente do Brasil! Niente più notte samba, ma tango di San Giovanni!
Allo stadio, in realtà, di argentini se ne videro pochi. Il mare verde-oro circondava una goccia bianco-azzurra. Le striminzite fila dei supporter latino-americani furono ingrossate dagli alleati napoletani che salirono a Torino a tifar la squadra del loro santo patrono Maradona, preferita anche rispetto agli azzurri.
Tipica fu la disavventura di un gruppo di 60 tifosi argentini che prima di arrivare in Piemonte, si fermarono a render omaggio nella Napoli del loro capitano. Li derubarono di tutti i biglietti, poveretti.
A fine gara, dagli occhi della folla venuta da Rio, San Paolo, Belo Horizonte, Fortaleza, Recife, Manaus piovevano lacrime.
In un pianto il Brasile se ne tornò a casa, mentre i fuochi della notte di San Giovanni illuminavano il Po.
Non finì lì, invece, per la città: fu tempo di semifinali. Si sarebbero disputate a Napoli e ad Augusta Taurinorum. In terra partenopea l’Argentina ci batté ai rigori dopo l’1–1 segnato dal nostro solito Schillaci e dal loro bomber Caniggia.
Eravamo fuori dai giochi, ci rifacemmo un poco con la magra consolazione del terzo posto acciuffato a Bari contro l’Inghilterra.
In un 4 luglio sabaudo si disputò invece Germania Ovest – Inghilterra, anche loro 1-1 deciso poi con la sofferenza dei rigori dai sudori freddi. Vediamo la cronaca fuori dal campo.
Grandi timori in città per l’arrivo dei 30.000 tedeschi ma soprattutto di 10.000 inglesi, i gentlemen di Albione si erano già fatti riconoscere in diverse occasioni.
A Cagliari avevano fatto i diavoli a quattro, con fatica erano stati tenuti a bada dalle mazzate dei celerini. A Rimini, dove le orde più incarognite si erano riversate prima di raggiungere Bologna per il match contro il Belgio, la situazione degenerò brutta. Era la notte della vittoria dell’Italia sull’Uruguay agli ottavi e anche in Riviera Romagnola i tifosi scesero con trombe e cori in piazza.
Da alcuni pub british style mal frequentati vennero scagliati contro gli italiani padroni di casa pinte vuote e bottiglie di vetro.
Finimondo.
S’accese la guerriglia del lungo mare.
La madama s’infilò il casco e sfoderò gli sfollagente.
La teppa inglese fu contenuta dalla coltre irritante dei lacrimogeni. Le auto vennero rovesciate. La polizia caricò duro.
Tanti feriti e oltre cento arrestati. Un pandemonio adriatico.
Dunque le forze dell’ordine temevano, e non a torto, un ripetersi degli incidenti anche nel capoluogo sabaudo. Gli inglesi furono recintati al parco della Pellerina, sotto stretta sorveglianza nell’accampamento Union Jack, che poi subì un tentativo di assalto da parte di ultras autoctoni, fermato in extremis.
A Porta Nuova una rissa lasciò sul pavimento un tedesco aperto da una coltellata.
Gruppi di italiani organizzati provarono, senza riuscirci, nuovi ingaggi con i sudditi di Elisabetta sulle rotaie al passaggio dei treni speciali e poi in via Roma e in Piazza Carlo Felice.
Nel frattempo, sui palchi delle maestà, i pezzi da novanta prendevano posto. Tartine, champagne e coccole. Per l’occasione arrivò pure Henry Kissinger, quasi a far da ambasciatore USA per i mondiali successivi americani. Fece come l’amico Giovanni Agnelli e si mise in maniche di camicia; ancora una volta l’Avvocato dettava lo stile.
Come di consuetudine, i potenti furono gli ultimi ad arrivare prima del fischio d’inizio e i primi ad andarsene al triplice fischio.
Torino salutò l’esperienza dei mondiali con Germania Ovest 4, Inghilterra 3. Bonn gongolava.
Che anni quelli per i tedeschi.
La Coppa del Mondo sarebbe stata loro, alzata al cielo di Roma dal capitano interista Matthäus.
Una vittoria ai mondiali è già di suo un risultato stellare, ma per la Germania fu un risultato addirittura epico. L’anno prima era crollato il Muro e il processo di riunificazione est-ovest era in corso, i tedeschi si erano riabbracciati dopo 45 anni.
Il cancelliere Helmut Kohl promise elezioni comuni occidentali e orientali entro la fine dell’anno 1990.
La Germania era una, di nuovo. Terzo titolo planetario per loro - mentre gli argentini rientrarono a Buenos Aires depressi.
Bilancio. I turisti furono meno rispetto alle attese. La crescita di visite straniere del dopo mondiale non ci fu, non diventammo una città turistica. Lo stadio Delle Alpi mostrò sin da subito il suo grave difetto della pista d’atletica costruita per poter usufruire dei generosi finanziamenti del CONI (o almeno, così avevano promesso: andò diversamente) ma che impediva una buona visibilità soprattutto dalle curve. Un inutile orpello utilizzato forse in un paio di occasioni.
I costi di manutenzione apparvero ben più alti di quanto calcolato inizialmente; giochi e sistemi di potere sotto la Mole ne decretarono la morte e la rinascita con lo Juventus Stadium, di tutt’altra concezione e in linea con i nuovi dettami del calcio moderno.
Il vecchio freddo Delle Alpi quella stessa magica estate del ’90 fu usato per i megaconcerti delle rockstar.
Prima giunse Madonna, poi i Rolling Stones. Niente male come fredda città industriale…
Alcune considerazioni personali sono fatte per capire perché in quell’occasione Torino si dimostrò essere una delle vetrine italiane più importanti dell’evento. Ospitammo cinque match, tra cui lo sfidone Brasile - Argentina degli ottavi e una semifinale. Insomma, mica robetta.
Di sicuro, la presenza di Montezemolo come direttore generale del comitato organizzatore (l’anno seguente sarebbe diventato vicepresidente esecutivo della Juve) fu preziosa nel dar lustro alla città.
Gli Agnelli contavano, attraevano interesse internazionale verso la metropoli, noi comuni mortali lo sapevamo e li rispettavamo, adesso invece che quel legame tra gli eredi e Torino non esiste più, i tempi sono decisamente cambiati.
Il conto di Italia ’90, passata la sbornia di un’estate italiana fu indubbiamente salato. Tante le opere erette, tanti i soldi impiegati, tanti gli sprechi.
Fu il canto del cigno dei mirabolanti anni ’80, del secondo boom italiano, del benessere televisivo, del PSI, di Craxi, del socialismo ruggente e rampante, dei sorpassi della fuoriserie Italia.
Nel biennio 1990-91 la nostra economia pareva macchina da corsa su di giri così truccata dal serbatoio pieno di debito pubblico. Sorpassammo Gran Bretagna e poi a tavoletta anche la Francia: l’Italia era la quarta potenza industriale del mondo, dopo USA, Giappone, Germania.
Che orgoglio; effimero, breve, probabilmente taroccato, certo, ma che orgoglio.
Costruivamo ancora grandi opere. Avevamo in tasca un potere d’acquisto per riempire senza pensieri pance, armadi, garage. L’Alitalia volava ancora alto, esempio di buona italianità in giro per aeroporti internazionali.
Lusso, qualità della vita, benessere. Sì, mi sembra che stessi meglio quando ero bocia. Eravamo borghesi, avevamo le doppie case.
Tangentopoli nel 1992 fu l’inizio di una nuova epoca. Una nuova epoca più globalizzata, più europeista, più comunitaria che ci indebolì rendendoci periferici.
Furono notti magiche, ma venne l’alba.
Federico Mosso
@twitTagli