Magazine Cinema
di Roberto Oddo
5. La fine del mondo è vicina
Provo e riprovo quello che racconterò a Gil. Seduto su un muretto a Bebelplatz, verifico la tenuta delle mie emozioni, ma la storia non tiene.
"Ciao," mi dicono.
Metto a fuoco la ragazza che mi ha salutato e mi alzo di scatto.
"Ciao!", rispondo pronto. Poi ci ripenso e le domando: "Ci conosciamo?"
Ha i capelli rossi legati in una coda che le scende giù lungo la spalla destra, indossa un vistoso abito a fiori troppo leggero per un maggio berlinese, sia pure tanto luminoso. Ma penso anche che con una pelle delicata come la sua non potrebbe mai permetterselo in pieno luglio.
"Beh, sì, credo di sì", e mi squadra dalla testa ai piedi con un'innocenza che mi atterrisce e mi eccita. "Ci siamo conosciuti ieri sera, ovvero: ieri notte..."
Scacco matto in due mosse. Adesso, qualunque cosa io abbia dimenticato o finga di ricordare metterà in imbarazzo me e forse anche lei. Poi la guardo a mia volta e decido che lei non sa cosa sia l'imbarazzo.
"Ehi, insomma, siamo in molte, le ragazze a darti gomitate sui fianchi." E ride, ride di cuore, ma senza perdere mai il controllo, come se lo facesse davanti a un'intervista televisiva in prima serata. Ride, ride per famiglie, raffreddando qualunque speranza di doppio senso.
A questo punto ricordo davvero, ma è come se lei avesse scippato le chiavi di un mio sogno... tanto mi sembra lontana la sera in cui Kostas era solo un uomo che stava venendo a vivere con la donna che amava, un nome in arrivo su un treno.
"Ah, sì", balbetto, cercando qualcosa da dire: "Non eri sola."
"No, ero con mio fratello. Mi ha rovinato la serata per l'incidente che abbiamo avuto..."
"Mi dispiace", dico, intontito. No, aspetta. Mi dispiace?! Io mi sono preso la gomitata e mi dispiace, ci risiamo.
"Però puoi farti perdonare", e mi guarda speranzosa.
"Dimmi." Dico, serissimo, mentre mi carezzo studiatamente il fianco colpito. "Solo che di solito non ho debiti con ragazze di cui non conosco il nome."
E lei sorride, sollevandosi un po' i lembi della gonna in un ampio inchino. E si risolleva, così che le onde dell'abito tornano a ombreggiarle le gambe: "Touchée, ragazzo. Sono Sabine." Lo dice porgendomi il dorso della mano.
"E io, per Sua Grazia, sono Antonio."
"Spagnolo?"
"No, italiano... siciliano. Ma, se la cosa mi riscatta, il mio coinquilino... e padrone di casa, a dire il vero, è spagnolo." E un suono breve e crescente dell'orologio da polso mi avverte che sono le tre e mezza.
"Va benissimo anche italiano", concede, studiando il gesto meticoloso con il quale ho spento la sveglia. "Ottimo tedesco, comunque si sente che l'hai imparato da grande."
"Grazie... Mio padre non la pensa così, ma va bene. Neanche tu sembri di Berlino, però."
"Sono di Erfurt, la conosci?, ma ho una borsa qui, alla von Humboldt", e la indica distrattamente dietro di sé.
"Oh, anche tu."
"Alla Humboldt, dici?"
"No, Erfurt..."
Mi guarda, indispettita. "Siamo in tante, nel Suo catalogo, Signore?"
"... Dicevo: come la mia matrigna, Greta..."
"Oh, magari la conosco. Ma..."
"... e poi comunque ci sono stato più volte, ci ho anche seguito due seminari, studio storia delle religioni, forse sai che lì da te..."
"No, non lo so. Ma veniamo a noi", taglia, insaziabile.
Vorrei farle notare che siamo già io e lei in questo pomeriggio domenicale a Bebelplatz e che, se qualche curioso ci ascolta, comunque dovrebbe rimanere fuori da questa storia.
Lei prosegue, ignorando la mia protesta silenziosa: "Vieni a casa mia."
Non mi sembrava il tipo. Però.
"Non farti strane idee, ragazzo. Voglio che ti veda mio fratello."
"Ho fatto colpo?"
Finalmente ride di gusto, senza riserve. "No, voglio che veda che non sono un'assassina."
"Stai scherzando?"
"Però, sei un bel tipo, potresti proprio piacergli, solo che temo tu piaccia più a me." Ma lo dice con timidezza, come se non si fosse aspettata di arrivare fin lì. E io all'improvviso penso a Barbara, allo sguardo che aveva mentre mi alzavo dal loro tavolo, lo sguardo implorante di chi ti chiede dirimanere, ma è già pronta ad andarsene e impaziente difarlo
Vedendo che stava perdendo la presa, Sabine assume un tono scherzoso, che crea un buffissimo contrasto con la sua aria preoccupata: "No. Dai, è simpatico..."
E sorrido, per smorzare il suo imbarazzo: "Così, ti rinnova il permesso di libera uscita." Ma mi rendo conto troppo tardi di aver anche frustrato il suo audace tentativo di seduzione. "Va bene, va bene, te lo prometto, ora però devo andare, credimi, non posso proprio."
"Non dicevo ora. Domani a cena?"
Guardo l'orologio, come se fossi costretto a prendere una decisione affrettata contro voglia. "Va bene, va bene. Però facciamo così, non ho con me il cellulare." Prendo il portafogli e per scrivere il mio numero su un bigliettino. "Mi manderesti un messaggio con indirizzo e tutto alle sei in punto? Così so che sei tu e non mancherò."
"Dimmi il numero..."
"Te lo sto scrivendo!"
"Facevi prima a darmi un biglietto da visita." Sembra davvero indignata. "Fuori il numero."
Sono costretto a dettarglielo. Ora è soddisfatta. Rimetto il portafogli a posto e la saluto. S'inchina nuovamente e se ne va senza una parola.
Percorro a piedi la strada fino a casa, con la fine del pranzo con Barbara e Kostas ancora tutta da inventare. Conto solo sul fatto che lo spagnolo non ci sarà e potrò sfuggire alle sue silenziose allusioni fino a stasera. Quando entro nell'androne del palazzo, frammenti di storie diverse tentano invano di saldarsi in un'unica bugia, ma non me ne preoccupo. Appena apro la porta, vedo la busta che ero certissimo di avere portato con me stanotte, insieme alla lettera di papà. Mentre penso a come possa essere finita là, dovrei averla in tasca - e controllo se c'è l'altra, vengo rassicurato da un leggero e inconfondibile crepitio - mi accorgo che c'è ancora il bigliettino che avevo lasciato a Gil ieri notte, appeso allo specchio. Ma è poggiato lì e rigirato nuovamente, un punto interrogativo - che prima non c'era - accanto al numero di telefono trascritto alla meglio da qualcuno in discoteca.
E in un attimo mi viene un'intuizione. Corro a prendere il cellulare in carica nella mia stanza e cerco tra le ultime chiamate, fino a trovarla. Forse l'oretta in discoteca ha avuto più senso di quanto immaginassi ieri. Penso a Sabine la rossa, Sabine la mantide, con le sue strane idee sulla sopravvivenza alle gomitate, mentre scorro i messaggi: due sono dello stesso numero sul bigliettino. Uno è prevedibile, la comunicazione automatica di raggiungibilità, l'altro si legge ugualmente a colpo d'occhio: "La fine del mondo è vicina."
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