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Le origini del gioco d’azzardo.

Creato il 14 maggio 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online
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Anche nel Medioevo era presente il gioco d’azzardo. E di certo non meno di quanto avvenga oggi, sebbene vigessero norme piuttosto severe in fatto di giochi di fortuna, che punivano i trasgressori con multe salatissime, il mancato pagamento delle quali poteva costare loro la libertà e, talvolta, perfino la vita.
Particolarmente diffuso in tutta Italia era il “gioco della zara” (dall’arabo zahr, dado), con riferimento al quale Dante apre il VI canto del Purgatorio, famoso per l’incontro del poeta con il trovatore Sordello da Goito, in cui sono narrate le vicende dei negligenti -intendendosi per tali coloro che hanno omesso di adempiere ai loro doveri spirituali- deceduti di morte violenta, condannati a sostare nell’antipurgatorio per un periodo di tempo pari alla durata della loro esistenza terrena:

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.

Come è evidente, il poeta focalizza la sua attenzione non sui meccanismi di funzionamento e sull’aspetto ludico del gioco, bensì sulle figure degli “zaratori”: quella del vincitore a cui, attraverso l’uso della similitudine, si paragona (come lo zaratore vittorioso dona parte della propria vincita alla folla che lo assedia nella speranza di ricavarne un vantaggio pur di liberarsene, così il poeta presta ascolto alle richieste di suffragio delle anime dei negligenti promettendo di darvi seguito pur di potersi allontanare dalle stesse) e quella del perdente, di cui mette in risalto la dolorosa solitudine a cui viene abbandonato.
Avvilimento e sconforto erano esattamente le sensazioni che si accompagnavano alla sconfitta al gioco, come Dante naturalmente ben sapeva, ed erano particolarmente accentuate in coloro che appartenevano alle fasce sociali meno agiate; la zara, infatti, come del resto le carte e la morra, aveva natura universale, essendo accessibile a tutti, al punto che veniva praticata perfino dagli ecclesiastici.
Ma in cosa consisteva questo ludus, che è stato capace di guadagnarsi le attenzioni di Dante ed uno spazio all’interno della sua celeberrima opera?
Il gioco era in realtà assai semplice.
Per giocare occorrevano tre dadi a sei facce e un tavolo piano, sul quale erano scritti i numeri su cui si poteva puntare; se i dadi, una volta lanciati, davano il numero corrispondente a quello su cui si era scommesso (che doveva essere dichiarato a voce alta), il giocatore aveva vinto.
Innegabilmente, si trattava di un gioco di fortuna. Ma di sola fortuna o anche di abilità?
Stando alle parole di Dante, “colui che perde si riman dolente,repetendo le volte, e tristo impara”, per essere dei buoni zaratori la fortuna non era bastevole: occorreva una buona abilità logico-matematica e, più precisamente, era necessario cavarsela bene col calcolo delle probabilità (la possibilità di uscita dei numeri dieci e undici è altissima, mentre quella delle cifre tre, quattro, diciassette e diciotto è molto bassa); tale capacità, se non naturalmente posseduta, poteva essere acquisita col tempo e con l’esercizio, ragione per cui i novelli giocatori sconfitti, seppure rattristati, si dedicavano a ripetuti lanci di dadi dopo la partita persa.
Le radici del gioco d’azzardo, sono, dunque, piuttosto lontane nel tempo; e il gioco d’azzardo praticato in epoca medievale non era poi così diverso da quello che viene praticato oggi, atteso che anche allora vi erano persone che accumulavano ingenti debiti che non erano poi in grado di saldare.
La dipendenza da gioco esisteva, quindi, anche nel Medioevo, ma non era riconducibile tanto alla presenza, nei giocatori, di vulnerabilità biologicho-temperamentali –le stesse, invece, sono oggi ritenute alla base della dipendenza dal gioco- quanto al fatto che la società medievale era una società dominata dalla monotonia e il gioco d’azzardo altro non rappresentava, per molti, che un passatempo, seppure proibito dalle leggi.
Probabilmente, allora come ora, ciò che più spingeva le persone al gioco d’azzardo in maniera compulsiva era la sensazione di poter vincere la sfida al caso, di riuscire ad avere la dea bendata dalla propria parte
L’eterna speranza umana di riuscire a sconfiggere la crudele indifferenza del caso, l’azar (caso, in spagnolo) che troppo spesso sembra dominare le nostre vite.

articolo di Dalila Giglio. 


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