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Le Parole di Coltello Nero – D. De Lillo

Creato il 02 agosto 2011 da Tnepd

Le Parole di Coltello Nero – D. De Lillo


Le Parole di Coltello Nero – D. De Lillo
Frankpro Il brano che segue è tratto da Americana, di Don De Lillo. Il libro, che è uscito negli Stati Uniti nel 1971, ha trovato in Italia la sua prima edizione tradotta solo nel 2000. L’autore non ha bisogno di presentazioni; classe 1936, è considerato uno dei maggiori romanzieri americani. Il libro, in breve, narra di un viaggio per realizzare un documentario, da parte del protagonista David Bell, impiegato di un network televisivo, insieme ai suoi amici e compagni d’avventura.

E’ uno spaccato dell’America anni ’70 che emerge dal torrente in piena delle parole di David, molto più che un road-movie book, diciamo così.

Ad un certo punto David si ritrova ad ascoltare da Sullivan – giovane artista un pò matta e molto saggia – un racconto che oggi voglio proporre in questo post perché da solo, secondo me, vale più dell’intero libro. Ma questa naturalmente è una questione di gusti. Nel racconto delle parole a lei consegnate tempo addietro da Coltello Nero, un vecchio indiano, si ritrovano una serie di elementi, attuali innanzitutto, cruciali per molte questioni che dal 1970 ad oggi sono divenute sempre più bollenti, ancor più che congiunturali, conflittuali, come il rapporto tra l’uomo e la natura, ed in fondo quindi sé stesso.  E l’America. Che non è più come diceva il buon vecchio Dalla “dall’altra parte della Luna”.. ma ce l’abbiamo invece tutti i santi giorni ormai nel piatto in cui mangiamo e nella testa, nei piedi, perchè siamo stati programmati per portare le sue scarpe, e nelle orecchie, perchè ogni radio che si rispetti ci massacra con le sue musiche. Ed in tanti altri aspetti del nostro vivere quotidiano, che lo vogliamo o meno. Per cui finisce che il punto di vista di un vecchio indiano sul suo paese diventa un pò un punto di vista da dover tenere in qualche considerazione, da capire sicuramente, e da ascoltare perchè in fondo, in qualche modo, oramai l’America siamo anche tutti noi, purtroppo. Anche se – in effetti – sta dall’altra parte della luna. Buona lettura. Aveva cent’anni sembrava un ceppo di quercia tagliata. Da ragazzo aveva combattuto a Little Bighorn insieme al cavallo pazzo. Già allora disapprovava le guerre, e aveva passato quasi tutta l’età adulta a digiunare e pregare. Tempo fa, grazie all’intercessione di un antropologo, vecchio amico di mio padre, sono riuscita a far visita a Coltello Nero nella sua capanna sulle colline del South Dakota. Gli ho rivolto qualche domanda educata, che lui ha deciso di ignorare completamente, mostrando fin dall’inizio un fiero disprezzo per le amenità di circostanza. Fumava una pipa di mais vecchia e mal ridotta. Secondo me era riempita di fango e foglie umide. Poi gli ho chiesto se le cose erano cambiate molto, da quando lui era ragazzo. Ha risposto che era la domanda più intelligente che gli avessero mai rivolto. Ha detto che non era cambiato quasi niente. Che erano cambiati solo i materiali e le tecnologie, mentre noi restavamo sempre la stessa nazione di asceti, esperti in efficienza, infastiditi dagli sprechi. Che per decenni abbiamo ridisegnato il nostro paesaggio per eliminare tutto ciò che non è indispensabile, come gli alberi, le montagne e tutti gli edifici che non sfruttano al massimo ogni singolo centimetro quadrato di spazio. L’asceta odia gli sprechi. Noi progettiamo la distruzione completa di qualsiasi cosa che non serve la causa dell’efficienza. Ha detto che è difficile pensare agli americani come asceti. E invece lo siamo davvero, molto più dei santi fasulli d’oltremare. Diceva che il nostro vero desiderio, nei più profondi recessi del nostro cuore, è distruggere tutte le foreste, le case bianche, i ponti coperti, le ville signorili, i giardini di azalee, i grandi fienili rossi, le case coloniali, le chiatte per il trasporto fluviale, i villaggi dei cacciatori di balene, le segherie, i mulini, i palazzi d’anteguerra, le capanne di legno, le belle chiesette antiche e i depositi ferroviari. Tutti noi, in segreto, siamo totalmente a favore di questa distruzione, perfino gli ambientalisti, perfino quegli individui battaglieri che di professione vanno a picchettare gli edifici storici destinati alla demolizione. È questo che siamo. Linee dritte e angoli retti. Ammetterai anche tu che nell’intimo proviamo un brivido di fronte a qualcosa di bello che va in fiamme. Il nostro desiderio è di ricacciare le cose belle e antiche nell’oblio per sostituirle con strutture identiche ma insapore. Scatole di cellule tumorali. Stanze grigie e ordinate in cui meditare e leggere gli annunci pubblicitari, prova ad immaginare gli straordinari motel di prateria che saremmo capaci di costruire, se solo cedessimo completamente ai demoni della nostra vera natura. Immagina le automobili che ci porterebbero da un hotel all’altro, i macchinari monolitici alti come palazzi di 50 piani che costruiremo per eliminare le vittime degli incidenti d’auto senza il fastidio dei funerali, senza sprechi per la vidi e sepolcri. Diamo mano libera alla polizia, autorizziamo i folli governanti della nazione a distruggere chiunque vogliano. Questo è ciò che vogliamo veramente. Così mi ha detto Coltello Nero. Lasciarci travolgere totalmente da quello che è definito il peggio del carattere del costume nazionale. Sguazzare nella tremenda e scintillante fregnafangosa di madre America ( così ha detto). Di venire finalmente a patti con l’ira fasulla che tanto spesso mostriamo di fronte al proliferare della sterilità e della violenza nella nostra cultura. Uccidiamo le vecchie case di campagna e le stazioni ferroviarie barocche. Uccidiamo le casette di provincia marce e puzzolenti. Facciamo saltare in aria il ponte di Brooklyn. Facciamo saltare in aria Nantucket. Facciamo saltare in aria la Blu Ridge Parkway. Rendiamoci finalmente conto che viviamo nella mega America. Luci al neon, fibra di vetro, plexiglas, polieuretano, maylar, resine acriliche. San Francisco completamente rasa al suolo, e Georgetown  distrutta. Al loro posto costruiremmo motel e case identiche in ogni dettaglio. La nuova San Francisco non avrebbe neanche una collina. La costa del Maine sarebbe indistinguibile da Des Moines, nell’Iowa.  Nella nuova Washington colorata di grigio i senatori passerebbero otto ore al giorno in uffici tutti identici uno all’altro, incatenati ai termosifoni e flagellati da sgualdrine francesi. E questa è la cosiddetta filosofia, la saggezza del mondo antico, la cultura di cui abbiamo tanto bisogno. Nessuno suderà più. Il sudore è spreco. Chi sarà colto in flagrante a sudare verrà fucilato sul posto.  Tutti i condizionatori nelle case saranno regolati sempre sui 10°, senza modo di spegnerli. Le nuove università avranno una sola aula, e funzioneranno così: All’inizio di ciascun semestre l’intero corpo studentesco – almeno 500,000 persone in modo da dare lavoro sufficiente ai computer – si riunisce in un grande spiazzo all’aperto davanti ad una telecamera. Tutti gli studenti vengono ripresi e video registrati. Oh, separatamente vengono videoregistrati anche i docenti, uno per uno. Dopodiché i due televisori vengono portati nell’aula universitaria. Questa si troverà in una piccola casamatta a margine di un’autostrada a 36 corsie, la cui vicinanza faciliterà le trasmissioni tra apparecchiature elettroniche. O magari alle pareti ci sarà qualche striscione, e forse 12 placche commemorative, ma a parte questo nell’aula ci saranno solo i due televisori.  Alle 9,00 del primo giorno di lezione, i televisori, disposti uno di fronte all’altro, verranno accesi via computer; a quel punto il nastro registrato degli studenti starà a guardare il nastro registrato del corpo docente. Con il tempo il sistema verrà perfezionato in modo da arrivare ad un’unica università per tutto il paese; Coltello Nero ha continuato sotto la luna piena dicendo che la resa completa alle pulsioni e ai sogni più reconditi sarà la cosa migliore che possa capitare. In fondo era era la vera espressione di noi stessi nell’oscurità più profonda del nostro essere. Riusciremo a realizzarci pienamente. Partiremo per la marcia più lunga nella storia della razza umana sul sentiero della volgarità, della malvagità e della decadenza. Daremo vita alla superpotenza più grande di tutte: di fronte ad un potere così impazzito, il resto del mondo cadrà in ginocchio, sempre che non lo sia già. E poi, piantato un piede nel fango, poi un piede e tre dita, ci fermeremo per un istante, ci guarderemo intorno e decideremo se è il caso di sprofondare ancora di più verso la morte, o piuttosto di tornare sulla terra ferma e ricominciare a vivere, cibandoci di radici e bacche ma non più di simboli, liberandoci della maledizione della ascesi, lasciando il bisonte libero di correre, sapendo tutto ciò che una nazione deve sapere sul proprio conto e procedendo beati della consapevolezza che abbiamo deciso di non morire. Coltello Nero mi ha detto che vale la pena di correre il rischio, perché nel caso scegliessimo la seconda via saremo finalmente in grado di diventare l’America che può concretizzare ogni possibilità che le si presenta; l’America cittadina del mondo, l’America in cui credevamo di vivere da bambini quando eravamo piccoli; anzi, quand’eravamo piccolissimi.

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