Dopo aver vinto all’ultimo Festival di Cannes il premio per la miglior attrice per l’intensa e convincente prova di Bérénice Bejo, Le Passé di Asghar Farhadi è stato presentato a Firenze all’interno della quinta edizione di France Odeon. Il film, che da noi s’intitolerà Il Passato e uscirà al cinema il 21 novembre, è stato realizzato e prodotto in Francia dalla Memento Films e France 3 Cinéma con la partecipazione della BIM Distribuzione.
Ahmad torna a Parigi dall’Iran dopo quattro anni di assenza per formalizzare il divorzio dall’ex moglie Marie che nel frattempo ha intrapreso una nuova relazione con Samir. La donna, che vive con le due figlie avute da un precedente matrimonio in un appartamento in periferia insieme al nuovo compagno e al suo figlioletto, chiede ad Ahmad di aiutarla con Lucie, la sua primogenita con la quale negli ultimi mesi ha un rapporto teso e conflittuale. Nel tentativo di parlare con la ragazza l’uomo viene a sapere che la moglie di Samir, il nuovo compagno di Marie, è in coma da diversi mesi dopo un tentativo di suicidio che potrebbe essere stato causato proprio dalla scoperta della relazione extraconiugale del marito.
Farhadi ricomincia dunque da dove si era concluso Una Separazione, il suo pluripremiato lungometraggio precedente che lo aveva consacrato a livello internazionale facendolo conoscere al grande pubblico grazie all’Oscar vinto nel 2012 per il miglior film straniero. Con Le Passé il regista iraniano torna nuovamente in lizza per l’ambita statuetta essendo stato candidato a rappresentare l’Iran nella corsa agli Oscar 2014 sebbene il film sia una produzione europea, principalmente francese, scatenando non poche polemiche a riguardo.
Lo script del film, composito e articolato, firmato come sempre dallo stesso Farhadi, si districa pian piano sul grande schermo in maniera fluida e naturale, rendendo al meglio quel senso di realismo tanto caro al suo autore. La trama principale ne contiene al suo interno diverse altre che svelano via via nuovi particolari, facendo emergere nuovi elementi che rendono complessi, difficoltosi e intricati i rapporti tra i vari personaggi.
Asghar Farhadi pone l’accento su quanto sia difficile fare i conti col proprio passato, con i sensi di colpa, i rimpianti e i ripensamenti ma allo stesso tempo fa vedere quanto sia arduo riuscire a voltare pagina lasciandosi alle spalle il proprio trascorso. In Le Passé, girato prevalentemente in interni, assistiamo al dramma di vari personaggi, percepiamo il loro dolore, la loro angoscia e soprattutto la loro solitudine. La gioia e la serenità non abitano da queste parti, perfino i bambini di questa famiglia allargata ne sono sprovvisti; del resto non potrebbe essere altrimenti, costretti come sono a vivere le sofferenze dei loro padri e delle loro madri, a dover fare i conti con un perenne senso d’abbandono. Nel film sono rari e sporadici i gesti di tenerezza e d’amore nei confronti degli altri, i protagonisti parlano tra loro ma non riescono a comunicare realmente, divisi come sono da un muro di sospetti e diffidenze.
Impeccabile la direzione degli attori, con un terzetto di protagonisti particolarmente ispirato. Se la Bejo, che il pubblico italiano conosce quasi esclusivamente per la sua performance in The Artist, per questo ruolo ha trionfato a Cannes non sono certo da meno Tahar Rahim, attore francese in grande ascesa dopo essersi fatto notare qualche anno fa nell’intenso film di Audiard Il Profeta, e soprattutto Ali Mosaffa, interprete iraniano nonché regista con all’attivo un paio di pellicole dietro la macchina da presa, che ci regala una prova a dir poco magistrale nei panni di Ahmad. La particolare struttura narrativa di Le Passé fa sì che nella parte iniziale lo spettatore sia portato ad empatizzare proprio con il personaggio di Ahmad per poi spostare il fulcro del racconto su Marie ed in seguito su Samir in un finale aperto di rara bellezza.
Al suo debutto europeo Asghar Farhadi si conferma come uno degli autori più importanti emersi negli ultimi anni a livello internazionale con un film che, privato per forza di cose delle implicazioni socio-politiche che caratterizzavano i suoi lavori iraniani, conserva una forza e una solidità narrativa insite da sempre nel suo cinema e qui tutte incentrate sul dramma esistenziale dei suoi personaggi.
Boris Schumacher