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Il contadino salentino ha instaurato, sin dall’antichità, un rapporto sostenibile con l’ambiente naturale, realizzando una serie di manufatti rurali in grado sia di alleviargli il lavoro che di produrre profonde trasformazioni sociali e produttive ed elaborato sistemi ingegnosi ed ecocompatibili non solo di raccolta, conservazione e utilizzazione dell’acqua piovana, ma altresì di delimitazione delle proprietà agricole (muretti a secco) e di allestimento di un’ampia gamma tipologica di manufatti, tra cui trulli, masserie, frantoi e case a corte, come quelle ammirate a Martano.
Le “pozzelle” di Martignano e Castrignano dei Greci (riprodotte, rispettivamente, nelle foto) sono serbatoi ipogei scavati nelle depressioni di origine carsica (su cui le precipitazioni meteoriche ristagnavano), realizzati per soddisfare le esigenze vitali e affrontare i lunghi periodi siccitosi (da luglio a settembre, proprio quando le coltivazioni richiedono maggiori volumi d’acqua).
Tali manufatti, in larga parte scomparsi sia per l’ampliamento degli insediamenti urbani e della viabilità, sia per l’aggressione prodotta dalla vegetazione spontanea e dalle radici degli alberi –, sono ricordati spesso dalla toponomastica di vie, piazzette, contrade e rioni, dalla memoria popolare locale e, ancora oggi, presenti nella maggior parte dei centri abitati della Grecìa Salentina, attualmente costituita da dieci comuni (Calimera, Martano, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Melpignano, Corigliano d’Otranto, Soleto, Sternatia, Martignano e Zollino: v. figura), mentre, nel periodo della massima estensione (secoli XIV e XV), occupava una superficie tre volte superiore e raggiungeva il litorale gallipolino.
La Grecìa è l’unica isola ellenofona della provincia di Lecce (la più orientale d’Italia) – ricca di toponimi, tradizioni, elementi linguistici, gastronomici, architettonici e religiosi greci –, che, protesa nel Mediterraneo, tra lo Ionio e l’Adriatico, verso la Penisola Balcanica, ha costituito un ponte non solo per scambi commerciali e culturali, ma altresì per viandanti (greci, slavi, albanesi), militari, pellegrini e religiosi, i quali, integrandosi nel corso dei secoli con i gruppi umani locali, hanno influito ora sulla lingua, ora sulle vicende abitative, edilizia domestica, usi e costumi, ora sull’organizzazione socioeconomia e trasformazione dell’ambiente con la bonifica dei terreni, la diffusione di nuove colture grazie allo sfruttamento dell’acqua, soprattutto di quella piovana depositata naturalmente negli avvallamenti del terreno.
Tralasciando in questa sede la secolare querelle, ancora in piedi tra filologi e glottologi, sull’origine del dialetto greco-salentino, si può ragionevolmente ritenere che elementi bizantini si siano inseriti in una preesistente matrice magnogreca, attingendo dall’adstrato salentino (volgare romanzo parlato dal proletariato e, pertanto, diverso dal latino usato dagli ecclesiastici e dall’aristocrazia terriera e
commerciale), anche se altri studiosi ipotizzano un’immigrazione dalle colonie grecofone calabresi e siciliane attraverso il porto di Gallipoli. Il griko ha subito un processo di evoluzione del tutto
indipendente lasciando, nel corso dei secoli – malgrado la soppressione del rito religioso greco,
l’introduzione di quello latino, la scolarizzazione di massa, i matrimoni misti, la diffusione della lingua italiana, ecc. –, ampie tracce nel costume locale e sopravvivendo ancora presso gli anziani
(prevalentemente in ambito domestico) e soprattutto nei nomi di vie e contrade, poesie, canti popolari (d’amore, di lavoro e di dolore), racconti, leggende, indovinelli, proverbi e nenie (Biumbò, biumbò, pame na fèrome lio nerò a to frea tu Ja Marcu cino pu lene ka è pleo kalò = Biumbò, biumbò, andiamo a prendere un poco d’acqua presso il pozzo di San Marco quello che dicono sia il migliore).
Le “pozzelle”, profonde mediamente da 3 a 6 m (a seconda della posizione dell’interstrato argilloso che impediva la dispersione del prezioso liquido nella circolazione sotterranea) e dalla tipica forma a campana, generalmente presentavano le pareti “incamiciate” con materiale semipermeabile, costituito in tempi più recenti da tufi e in quelli più antichi da pietre informi disposte a secco in cerchi concentrici – per evitare l’eventuale smottamento delle rocce friabili e consentire la compenetrazione dell’acqua che, in questo modo, si arricchiva di minerali – fino all’imboccatura (vukkali in griko, coincidente con il piano di campagna), protetta abitualmente da un blocco calcareo (dalla forma circolare o quadrangolare) forato al centro (vera) per rendere possibile l’emungimento e inciso a volte con croci a testimonianza della fervente religiosità di cui era permeata la vita quotidiana della società contadina. Ricadenti in genere nei pressi delle vie di comunicazione, potevano essere sia private e contrassegnate perciò dalle iniziali delle famiglie che non solo ne vantavano il possesso, ma curavano anche la manutenzione e la pulitura della
pareti interne, asportando il terriccio che altrimenti avrebbe ostacolato l’infiltrazione per osmosi dell’acqua – il cui livello risultava sempre costante in tutti i manufatti per il principio dei vasi
comunicanti –, sia di proprietà demaniale. In tal caso erano utilizzati persino dagli abitanti dei paesi vicini, garantivano il prelievo anche ai più poveri, rappresentavano un luogo d’incontro (pame na piàkume nerò a’ to frea = andiamo a prendere acqua dal pozzo) e offrivano spesso, a numerosi cittadini, nelle calde giornate estive, l’unica possibilità di dissetarsi e rinfrescarsi (pame sta Scilò na piame nerò frisco = andiamo all’Ascilò per un sorso d’acqua fresca).
Lo stesso metodo di raccolta delle acque piovane era usato a Sternatia, dove, fra i vari invasi pubblici, ne viene menzionato uno per le sue dimensioni, detto volgarmente la Matria (la madre di
tutti), che denomina la via in cui era ubicata e da cui è nato il proverbio «Chi beve l’acqua della Matria non se ne va da Sternatia» («Tis pinni to nnerò à tti mmatria e ssiete pleo apu Sternatia».
Una grande cisterna nell’ex Convento dei Domenicani del 1709 (attualmente sede del Comune), era alimentata delle precipitazioni meteoriche cadute sul tetto e piano calpestio (lastricato con materiale lapideo), attraverso un reticolo di canalizzazioni e una serie di piccole vasche di decantazione, disposte ad altezze diverse.
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