Magazine Cinema
Sette anni dopo Il dono (2003) Frammartino si reca nuovamente nella sua terra d’origine, la Calabria, per girare un film che come dice Alessandro Baratti “è troppo poco narrativo per essere definito una pellicola di finzione e troppo narrato per essere attribuito al genere documentaristico” (link), e nuovamente costringe lo spettatore ad una partecipazione attiva, alla ricostruzione delle componenti filmiche che hanno bisogno del pensiero di chi guarda per dare luogo a un discorso sincero, pieno e compiuto.
Potenza della stasi, estasi immobile, che come nel lungometraggio d’esordio obbliga ad una osservazione minuziosa degli eventi che lontani da costrizioni sceneggiaturiali accadono perché si ha la sensazione che così deve essere, e Frammartino, a prescindere dalla sua influenza sulla scena, cattura le immagini trasmettendo enorme naturalezza aldilà degli studi preventivati a tavolino che senza ombra di dubbio ci sono stati.
Il canale attraverso cui viene percepita questa originarietà, questa essenza archetipale, è dovuto innanzi tutto all’ambientazione che per l’ennesima volta conferma l’impareggiabile spirito arcaico dei paesaggi bucolici nei quali si sostanziano elementi pressoché primitivi della nostra razza: vedasi le forme di superstizione (la polvere della chiesa usata come placebo per la tosse, inutilmente), tradizione (la processione con i costumi d’epoca) e aggregazione (la festa con l’albero), ai quali si aggiunge una totale discrepanza con il nostro mondo metropolitano per via della contemplazione/riflessività/ascetismo generale che permea tutti gli scorci e vedute di questo paesino abbarbicato sulle rocce. Chi trionfa, oltre al Cinema, è la natura, di cui è arrivato il momento di parlare.
La ciclicità che dà il titolo al film si accompagna ad un piccolo miracolo su pellicola, per quanto possa essere piccolo un miracolo. Il quadruplice passaggio uomo-animale-vegetale-minerale si affianca ad una progressiva estromissione del regista dal film. Finché al centro dell’attenzione è posto il vecchio pastore è chiaro che il controllo su di esso può definirsi totale, ma già con l’entrata in scena della piccola capretta il comando si allenta, Frammartino non può “dirigerla” ed ecco che è lei, la bestiolina, a dettare i tempi di ripresa, poi tagliati e cuciti in fase di montaggio certo, tuttavia vi è una sorta di liberazione dogmatica, è cinema libero questo, e nel ritrarre oggetti inanimati come un abete o del carbone che porterebbero ad uno scivolamento documentaristico, al contrario si fortifica l’aspetto narrativo. Così più ci si allontana dalla visione antropocentrica della storia più il regista si congeda dalla cabina direttiva e più, che magia!, il film acquista senso.
Frammartino gioca splendidamente con le iterazioni. Cosiccome la sua opera non è nient’altro che una fase, una ruota, un ritmo che si ripete all’interno degli estremi vita-morte, egli piazza dei loop che si ripercuotono con inesorabile magnificenza, equazioni estetiche sonore e semantiche: il bambino staccato dalla processione come la capra staccata dal gregge, l’incessante tosse del pastore come il belato dell’animale, la formica sul tronco dell’albero come quella sul viso del vecchio, la lapide che chiude il loculo come i tronchi che occludono l’interno della carbonaia [1].
Oltre i confini nazionali ci sono pochi film di questo livello, dentro… beh, figuratevi un po’ voi: respirate a pieni polmoni, questo è ossigeno purissimo per il cinema italiano.
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[1] In questa intervista Frammartino cita tra le fonti di ispirazione Béla Tarr. La sequenza in esame ricorda davvero tanto il finale di quel patrimonio dell’umanità che è Satantango (1994). Omaggio o meno, si tratta comunque di una grande scena.
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