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Le ragioni di una crisi

Creato il 06 maggio 2013 da Conflittiestrategie

Il dibattito economico in Italia soffre di una paurosa arretratezza e segue pedissequamente, senza penetrarlo e comprenderlo, il ritardo produttivo che il nostro paese ha accumulato a partire dagli anni ’80, divenuto cronico dai ’90 in poi, in concomitanza ed in ragione di una grave crisi politica. Un circolo vizioso che testimonia dell’incompetenza dei nostri attori intellettuali, politici ed imprenditoriali.

Anziché ragionare sulle profonde modificazioni avvenute nel contesto storico-economico mondiale negli ultimi tre decenni, evitando di ricorrere a comode abbreviazioni ideologiche, analiticamente mute ed ineffettuali nella pratica ri-organizzativa degli apparati sociali (globalizzazione, finanzcapitalismo, ecc. ecc.), le élite e i centri decisionali nostrani, tanto pubblici che privati, hanno coperto le loro mancanze interpretative, e quindi deliberative, intorcinandosi su antichi schemi dottrinari (benché riveduti e aggiornati) di molto antecedenti ai fatti nuovi, che non chiariscono l’andamento dei tempi e dei mutamenti in atto.

Sui principali quotidiani nazionali, quando si affronta il tema della crisi,  i professori prestati alla stampa si dividono ancora tra statalisti ed antistatalisti, neokeynesiani e neoliberisti, strenui difensori delle politiche degli stimoli alla domanda oppure di quelli all’offerta, riflettendo acriticamente le posizioni promananti dalle loro committenze accademiche, istituzionali e imprenditoriali.

Si tratta di contrapposizioni puramente formali, distanti anni luce dalle problematiche reali di un Paese che soffre, prima di tutto, di una carenza di sovranità politica. Costoro non hanno inteso che il default globale deriva da sconvolgimenti geopolitici, dal fatto che non esiste più un centro regolatore mondiale con l’autorità d’imporre i suoi equilibri in buona parte dell’orbe (come lo sono stati gli Stati Uniti per l’area occidentale, durante la guerra fredda e subito dopo questa, per ulteriori due lustri, su uno spazio geografico ancor più vasto, includente l’ex blocco sovietico), dispensando abbondanti “resti” in cambio di fedeltà alla sua supremazia; che sono emerse dal presente e riemerse dal passato Potenze (Stati) le quali proiettandosi in un futuro di crescente autodeterminazione di quegli avanzi non si accontentano e vogliono incidere sui processi decisionali con peculiari prerogative sovrane; che le regole mercantili non discendono più dalla volontà di un unico protagonista indiscusso, assoluto sceriffo del pianeta e dispensatore di patenti di democrazia o di tirannia, per quanto goda ancora di un buon vantaggio sugli antagonisti.

Arrovellandosi sui numeri e sui calcoli costoro hanno perso di vista le traiettorie delle relazioni di potere tra nazioni e aree di nazioni in via di ricollocazione sullo scacchiere globale, questo sì fattore determinante che aiuta meglio ad afferrare dove stanno andando  “continenti” e  popoli in questo momento epocale.

Nessuno di essi ha ancora inteso che non è la forma giuridica della proprietà a determinare il grado di funzionalità delle aziende, almeno non con quella consequenzialità immaginata, poiché esso dipende dagli obiettivi prefissati e dall’autonomia conservata nel raggiungerli, puntando sui settori tecnologicamente più avanzati e redditizi, i quali vanno agguantati con la capacità industriale ma anche difesi con il calibro della diplomazia, dell’intelligence e degli eserciti. Lo fanno tutti anche se tutti lo mascherano con la fede negli automatismi regolatori del mercato.

Se lo Stato e le massime imprese nazionali lavorano sinergicamente su questi presupposti, particolarmente aumentando le loro cointeressenze sui mercati esteri, ci guadagna tutto il corpo collettivo nazionale e si può provare a respingere l’azione “scorretta” dei competitors che si fanno annunciare dalla competenza ma anche dalle divisioni corazzate o dalla minaccia di servirsene. In Libia ne abbiamo recentemente avuto un saggio perdendo molti affari a vantaggio di americani, francesi ed inglesi.

Ovviamente, ciò non significa che nel Paese dove il recupero di sovranità diventa un tratto unificante dell’orizzonte politico si raggiunga un clima di perfetta pace sociale, in quanto sono sempre prevalenti, in qualsiasi formazione capitalistica, anche in quella più ricca, i rapporti conflittuali tra soggetti economici, tra soggetti politici, e tra agenti politici ed economici. Ad ogni modo, laddove l’interesse statale è un fine ineludibile dell’iniziativa autoctona, la competitività e la concorrenza interna, inquadrate in una precisa e flessibile strategia politica, rappresentano le strade maestre per non farsi aggredire dagli appetiti stranieri e dall’ambiente internazionale circostante, accrescendo il benessere generale, cioè la torta da spartire, le cui fette non saranno mai divise equamente ma la cui consistenza garantirà, in ogni caso, la possibilità di una maggiore contrattazione tra i vari strati della società. Se la torta, al contrario, si riduce, per quanto si sbraiti e si scenda in piazza a protestare, si potranno patteggiare le briciole ed anche meno di quelle.

Altro che pareggiare il bilancio per rilanciare la crescita e la prosperità. Si tratta di un modo per limitarsi a preservare un esistente di decadenza ed aggirare quelle scelte coraggiose, di slancio economico, che infastidiscono i nostri supervisori comunitari o extra-comunitari.

Infatti, si può  spendere anche di più senza che ciò significhi scialacquare. Sono disperse quelle risorse che negando il principio di produttività ed efficienza dei beni pubblici vengono elargite a quote sovrabbondanti di impiegati amministrativi i quali rappresentano il prodotto del clientelismo politico diventando, contemporaneamente, i custodi dei meccanismi che alimentano il peggior parassitismo sociale. Così come sono distrutti quei  mezzi finanziari che vengono elargiti ai gruppi industriali decotti (superstiti di precedenti ondate tecnologiche) e a quelli della finanza speculativa, incapaci di stare in piedi con le proprie gambe, che, non a caso, periodicamente battono cassa alle istituzioni per sopravvivere alle avversità circostanti.

Imprese pubbliche e private operano spesso sui medesimi mercati, in base alle stesse logiche tecniche ed economiche ma la differenza, la grande differenza, discende dalla missione storica di cui si fanno o meno portatrici, soprattutto nei cosiddetti settori merceologici strategici dove il confine tra economia e politica diventa labile e compenetrabile. Sicuramente, dev’essere quest’ultima a fornire indicazioni ed informazioni alla prima per suggerire i precorsi adeguati e le eventuali scorciatoie da imboccare per la concretizzazione delle intenzioni e dei piani di affermazione.

C’è chi vaga in cerca di opportunità senza arrivare a nulla, illudendosi che la mano invisibile renderà giustizia ai più bravi e c’è chi, scaltro e mondano, sa benissimo che la fortuna va aiutata con ogni mezzo, anche con quelli ai limiti della liceità. Pensate, in tal senso, ai processi pretestuosi che si stanno consumando contro le imprese di punta italiane, Eni e Finmeccanica, triste esempio della debolezza e dell’autolesionismo patrio e poi guardate alla protezione di cui godono le corrispettive multinazionali estere, tutelate a spada tratta dai propri governi.

Quando i neoliberisti irriducibili chiedono allo Stato di farsi da parte e di rinunciare alla sua presenza nella sfera economica non sanno quello che dicono o se lo sanno sono in malafede perché qualora ciò avvenisse veramente, piuttosto che facilitare lo sprigionamento degli animal spirits competitivi, si favorirebbe lo spegnimento di questi da parte di soverchie animalità politico-economiche estranee al contesto di riferimento. D’altro canto chi riduce lo Stato ad un ente assistenzialistico e perequatore delle istanze delle classi sociali genera altrettanta confusione o raggiramento essendo questo, in prima battuta, il campo di una profonda conflittualità tra agenti e gruppi strategici miranti a controllare i suoi apparati coercitivi ed egemonizzanti, precipitazione di quella specifica lotta per la supremazia, finalizzata a gestire il potere e i suoi aggregati. Dunque, la dicotomia pubblico-privato, così come posta dai preti delle dottrine statalistiche e privatistiche è un abbaglio ed un imbroglio.

Finché i nostri connazionali crederanno agli affabulatori di una teoria o dell’altra (ed ai loro protettori politici ed istituzionali) non potremo che sprofondare e continuare a perdere importanza internazionale. Non è un caso che questi cialtroni che ci sgovernano la richiamino molto, perchè più se ne danno e meno ne hanno, tanto che sono costretti a peregrinare da una capitale mondiale all’altra per ogni passo che mettono a Roma.


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