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Le religioni e la morte

Creato il 06 gennaio 2015 da Appuntiitaliani
Pubblicato il gennaio 6, 2015 da: Corrado Gnerre Le religioni e la morte

Anche riguardo al problema della morte larisposta cristiana è quella più convincente ed esistenzialmente più gratificante.

Riflettere sulla morte è difficile. Lo è perché la morte è la questione fondamentale; è ciò che è sempre presente, evidente o latente che sia. E ciò che è più presente, proprio perché più presente, diventa paradossalmente più difficile da poter spiegare…e da capire. La morte è il grande problema. Fa scandalo. E’ qualcosa d’innaturale che distrugge ciò che è già e ciò che è in progetto. Ciò che si è vissuto, pensato, realizzato e ciò che ancora deve venire.
Ecco perché, direttamente o indirettamente, tutte le manifestazioni dell’umano trattano della morte; e lo fanno soprattutto attraverso i tre grandi temi dell’esistere: l’attesa, l’insoddisfazione e la ricerca di senso.

Ed è anche e soprattutto sulla morte -cioè su come si tenta di risolvere questo problema- che le religioni trovano la loro ragion d’essere. Per cui le religioni possono essere giudicate anche da come sanno “risolvere” la questione della morte.
L’ho detto più volte: le religioni non si equivalgono. Fino a quando si rimane nell’ignoranza ci si può anche illudere di una sorta di uguaglianza fra le religioni; ma se si inizia a conoscere, si inizia anche a capire l’enorme differenza…

Seppur brevemente, facciamo un viaggio attraverso le diverse “posizioni” sulla morte che hanno assunto le tradizioni religiose più importanti. Sono precisamente tre:

1.La morte come illusione.
2.La morte come valore.
3.La morte come questione.

Iniziamo dalla prima (La morte come illusione). In essa rientrano tutte le religioni che esprimono un’impostazione monistica, cioè che affermano che la realtà è formata da una sola sostanza che si esprime differenziandosi, cioè dando origine a diverse realtà che sono solo apparenti. E’ il monismo spiritualista delle religioni del contesto indù (Induismo e Buddismo) ed è il monismo naturalista delle religioni estremo-orientali (Taoismo, Confucianesimo e Shintoismo). Poiché per il monismo l’individualità è un’illusione, è illusione anche la vita di ogni uomo. E se è illusione la vita di ogni uomo, allora diviene illusione anche la morte; ciò perché la morte è morte dell’individuo, anzi di quell’individuo storicamente inteso.

Da qui anche il significato della reincarnazione che accomuna le religioni monistiche. Non sto qui adesso a spiegare quanto la reincarnazione figuri non come premio ma come punizione; dico piuttosto che essa (la reincarnazione) è in coerenza con i presupposti di una morte come non-problema, come illusione. C’è un brano della Bhagavadgita in cui la divinità Krishna arriva finanche ad esortare il principe Arjuna, della stirpe dei Bharata, a vincere la compassione e ad uccidere in battaglia i suoi parenti stretti, proprio perché l’uccisione sarebbe solo un’illusione.

La seconda posizione è quella della morte come valore. Cioè la morte come qualcosa di positivo, anche se istintivamente può far paura. In questa tipologia rientra l’Islam, la cui dottrina ammette sì l’esistenza del peccato originale, ma ne circoscrive le conseguenze, nel senso che esse sarebbero state subìte da Adamo ed Eva e non dai lori discendenti. Ciò vuol dire che la morte non è una conseguenza del peccato originale, ma una “creatura” di Allah e pertanto, in quanto voluta e creata da Allah, è anche un valore. Ecco perché l’Islam canta spesso la “bellezza” della morte; non solo per chi decide di andarvi incontro attraverso la jihad, ma anche per chi vive la vita di tutti i giorni. La morte è parte integrante della vita…e non scandalo.

L’Islam cerca poi di “correggere” questa posizione (poco naturale da un punto di vista esistenziale) considerando il Paradiso non come godimento della visione beatifica di Dio, ma come aumento, a dismisura, dei piaceri (anche quelli più sensuali) già sperimentabili nella vita terrena.

E finalmente arriviamo alla terza posizione, e cioè la morte come questione.

In questa tipologia troviamo l’Ebraismo e il Cristianesimo, soprattutto grazie alla fede nel peccato originale. Secondo il pensiero ebraico e quello cristiano la morte è uno scandalo, un problema, un qualcosa di innaturale. Essa non era nel progetto originario di Dio, ma scaturì dal peccato originale, quindi a causa di un cattivo uso della liberta umana. Per questo, tanto l’ebreo quanto il cristiano possono temere la morte. Anche se è l’unica via per incontrare il Signore, è comunque un effetto del peccato e non è stata voluta da Dio.

Ma il Cristianesimo va oltre. Pur non giustificando fobie nei confronti della morte (che significherebbero mancanza di fede), dà ancora più ragione al timore della morte. Dio non solo non ha creato e voluto la morte, ma, incarnandosi, è venuto a farne vera esperienza. Cristo nel Getsemani ebbe paura di morire e arrivò a piangere dinanzi al sepolcro del suo amico Lazzaro, ben sapendo (da Dio) che la morte è un passaggio e non la fine di tutto, e ben sapendo che di lì a pochi secondi avrebbe fatto risorgere il suo amico. Dunque, il Cristianesimo, pur dando una soluzione alla morte, ne legittima il timore.

Fin qui il discorso puramente descrittivo. Ma ora chiediamoci: quale atteggiamento dinanzi alla morte è esistenzialmente più gratificante?

E’ convincente dire all’uomo: la morte è bella o la morte è un’illusione? Penso proprio di no. E’ umanamente molto più vero dirgli: la morte è stata vinta, non devi disperarti dinanzi alla morte, ma non è innaturale che tu la rifugga, è giusto averne timore, ed è giusto piangere la perdita dei propri cari.
Anche sulla morte la posizione cristiana è quella umanamente più vera.

CORRADO GNERRE


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