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Le scuole dell’apartheid. La Bosnia di oggi ferita ancora dalla segregazione etnica

Creato il 15 settembre 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Reportage: “Sarajevo vent’anni dopo. Il volto nuovo di Mostar, Višegrad e Srebrenica”

L’apartheid della Bosnia di oggi

La guerra è davvero finita in Bosnia? Quell’ormai lontano ’95 è l’epilogo di un conflitto durato tre anni? Forse non è proprio così. La pulizia etnica che aveva contrassegnato i massacri della Guerra di Bosnia si è ora tramutata in segregazione etnica. Un nuovo abito non troppo lontano dal precedente. Un nuovo grigiore soltanto diverso da quello di vent’anni fa. Ma la sostanza è quell’inclusione che tarda a venire e sembra alle volte impossibile. Nella Bosnia di oggi la segregazione etnica non è uno spauracchio di un passato tragico. È l’attualità che riattualizza una ferita mai veramente chiusa e porta con sé il sospetto che la vecchia guerra sia sempre alle porte.
Ad oggi sono 54 le scuole bosniache segnate dalla segregazione secondo l’etnia. Il suono delle campanelle spiega l’enorme frattura imperante all’interno di queste istituzioni. A mezzora di distanza l’una dall’altra segnano l’inizio della ricreazione. “È un’abitudine malsana” ci spiega una donna, “ma è il clima di tensione che oggi si vive in Bosnia”. Si studia nello stesso edificio. Sotto lo stesso tetto. Ma è tutta una semplice formalità. Nella sostanza i locali adibiti all’insegnamento sono diversi, così come i docenti, il personale di servizio, i bagni e i corridoi d’ingresso. Provocatoriamente una signora ci chiede: “Ma era proprio questo che ci si aspettava dall’Accordo di Dayton del ’95?”. “Mio figlio è bosniaco e non può condividere i giochi con i bambini croati. Le sembra giusto?” aggiunge una madre di famiglia con tre figli.
La creazione di queste scuole ha ormai una dozzina d’anni di storia. Furono istituite nel 2003 in 54 comunità della Bosnia. L’obiettivo originario era finalizzato a una cooperazione in vista di un’inclusione etnica. La realtà dei fatti? Una frattura sempre maggiore fra croati e bosniaci. Un taglio netto apparentemente insanabile. Le due comunità etniche hanno accresciuto le tensioni già esistenti, determinando un vero e proprio apartheid. Le stesse attività didattiche sono differenziate. “Le recite non sono mai condivise” ci spiega ancora quella donna, madre di tre figli, “Le autorità non lo permetterebbero”. Il dato che viene a mancare in tutto il discorso è la sensibilizzazione dal basso. Una strategia che metta in atto la sensibilità dei singoli a favore di una “comunità unitaria”, sebbene le peculiarità delle tradizioni proprie. Negli anni alcuni volontari e associazioni – attraverso spettacoli teatrali – hanno cercato di favorire l’inclusione sociale. L’opposizione da subito manifestata dai presidi è stata successivamente controbilanciata dal consenso delle famiglie. “Sapevamo che la guerra in Bosnia non sarebbe finita del tutto nel dicembre ’95. Eravamo consapevoli che avremmo dovuto fare i conti con gli strascichi del conflitto” ci spiega un uomo, che ha ormai i figli grandi, ma che vissero ugualmente il peso della segregazione etnica a scuola.

Il racconto dal didentro. La testimonianza dell’essere studente oggi in Bosnia

L’essere bosniaci o croati non significa soltanto una provenienza geografica. Non è un semplice dettaglio della carta d’identità. Ha un significato ben maggiore. È un contesto tradizionale che ci si porta sulle spalle, innanzitutto religioso. Abbiamo così – percentualmente – i bosniaci musulmani da un lato e i croati cattolici dall’altro. Due mondi che si scontrano e si confrontano quotidianamente. “Tra la gente comune non si respira più il rancore di un tempo” ci dice una donna, “È più un retaggio che è rimasto ai vertici e ricade poi sulla popolazione intera. Se la mia famiglia musulmana è rispettata” aggiunge ancora, “non avrei problemi a conversare con croati cattolici”. È questo un chiaro esempio di inclusione sociale, che tuttavia fatica oltremodo ad affermarsi nella Bosnia di oggi. Il vero problema parrebbe un altro, almeno secondo la testimonianza di un uomo che dice di aver vissuto in prima persona la guerra: “Le giovani generazioni non conoscono le altre culture. Come ci si può confrontare con gli altri, se si conosce a malapena la propria religione?”. Quest’uomo insiste per non farci sapere il suo nome. Ci dice soltanto di essere un ex insegnante di scuola, e di aver sentito il grande peso della segregazione etnica in aula. “La pace” ci spiega, “può nascere soltanto dall’ascolto e dal dialogo. Ma se un popolo non ascolta e non dialoga, non potrà mai aprirsi al mondo”.

Le opinioni dei genitori lasciano comprendere la grande nostalgia verso un passato remoto, almeno fino ai primi Anni ’90, prima che iniziasse la guerra. All’epoca le scuole erano ancora compatte, non c’erano fratture, non si pensava alla segregazione che invece oggi è un dato di fatto. “Le scuole divise” ci spiega una donna, “sono l’immagine di una guerra mai veramente finita. Tutto è iniziato con l’odio verso l’altro, e oggi cos’è cambiato? Le istituzioni cristallizzano questo rancore”. Il ruolo di alcuni presidi è forse la ferita che maggiormente sanguina. Il loro stesso imporsi con scelte forti rallenta il processo d’inclusione etnica e tiene viva la segregazione nelle aule. “Non capisco perché mio figlio debba studiare su libri diversi” racconta una madre, “Gli è prospettato un destino diverso dagli altri?”. Le sue parole trapelano una rabbia incrostata dagli anni. Ci spiega così come il nazionalismo sia il male – forse incurabile – che oggi percorre le vie della Bosnia. E ci lascia ancora intendere come sia difficile immaginare un Paese diverso. “Cosa contano le famiglie in questo sistema?” esclama, “Parecchie madri vorrebbero che i figli fossero tutti uguali, ma tutto continua come al solito, come se questi pensieri non fossero mai esistiti”.
Incombono ancora su molti le parole del ministro dell’Educazione, Greta Kuna, pronunciate nel 2007, quando – attraverso l’esempio delle mele e delle pere che non possono essere mischiate – dimostrava l’impossibilità di promuovere l’inclusione etnica. Il nazionalismo che procurò l’insorgere della Guerra di Bosnia ha determinato la nascita di enclave che secondo i vertici non possono essere risolte in una concreta e tangibile unità. “Qualcuno porta ancora un rancore virulento” ci fa sapere un anziano, “Il male dei croati e dei serbi contro i bosniaci non è ancora venuto meno. E si cerca di testimoniarlo alle nuove generazioni”. Gli chiediamo, allora, se questo non sia un modo per tener viva la tensione, oltre che una maniera per non dimenticare il passato tragico. Ci viene risposto che soltanto così si potrà scongiurare il sorgere di una seconda guerra in Bosnia. “Gli ingredienti per un nuovo conflitto” spiega, “ci sono tutti. Dayton è naufragato. L’accordo si è dimostrato una banale utopia”. Ciò che doveva supportare la resurrezione della Bosnia, ha invece favorito la separazione fra le diverse etnie. Ha dominato la legge del più forte, di chi ha vinto, di chi ha tagliato più teste. “Molti pensano che la Guerra di Bosnia siano state a malapena Sarajevo e Srebrenica. E qui la gente si sbaglia” esclama l’anziano, “Vengano a vedere il Paese oggi. Non ci sono più i massacri d’un tempo, ma si vive ancora da separati in casa”.

Tags:aparthied,bosnia,Guerra,scuola,segregazione,serbia

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