A fronte di quello che è stato definito il “Secolo dell’Asia”, a causa della rinascita asiatica dopo alcuni Secoli di relativo declino, l’Africa – e in particolar modo quella sub-sahariana –attraversa indubbiamente dalla seconda metà degli anni Novanta un’eccezionale fase di espansione e di sviluppo economico, registrando un tasso di crescita che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, ha superato nel 2012 quello medio dei Paesi BRICS. Tuttavia, nonostante un miglioramento complessivo delle performance economiche e nonostante anche una significativa evoluzione politica e sociale di alcuni contesti, il Continente resta segnato da debolezze strutturali, nonché da un nuovo periodo di instabilità e di arretramento dei processi democratici, coincisi in parte con le cosiddette Primavere Arabe del 2011, sbocciate sulla costa mediterranea africana, ma definitivamente esplose in tutta la loro evidenza nell’ultimo biennio con le crisi che hanno toccato l’Africa saheliana e con la recente epidemia di ebola. In questo contesto frammentato, l’Italia sta provando a ritagliarsi un ruolo importante sia attraverso la partecipazione ad azioni multilaterali – quale ad esempio l’immigrazione e la pirateria – sia attraverso l’instaurazione di un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo – improntato anche all’uso della diplomazia – rispettoso delle differenze e delle specificità locali.
Sebbene alcuni Paesi stiano registrando alti tassi di crescita e nonostante in alcuni casi siano stati avviati importanti processi per la pacificazione, l’Africa ci restituisce ancora un’immagine di sé come un Continente complesso, dilaniato da profonde spaccature e ben lontano da una soluzione ai molteplici conflitti. Quali sono le maggiori sfide che attendono il Continente nel medio-lungo periodo?
Sicuramente quello a cui assistiamo in Africa è una situazione a macchia di leopardo. Esistono aree di crisi e di forte instabilità: penso alla Repubblica Centrafricana, dove non cessa lo scontro inter-etnico tra i Seleka e le milizie anti-Balaka; al Sud Sudan, il cui percorso di pacificazione mediato dall’IGAD è ben lontano dall’essere implementato; penso all’intera fascia saheliana – che ha richiesto la messa a punto di un nuovo dispositivo di sicurezza –, comprendendo anche il nord della Nigeria e la Libia, la cui instabilità, pur non rientrando nell’Africa propriamente nera, ha degli effetti sull’area sub-sahariana. Ecco, a fronte di tali situazioni vi sono comunque degli scenari da cui provengono segnali positivi. Mi riferisco in particolar modo a Paesi che stanno attraversando un’importante fase di transizione, come il Sudafrica, dove si sta tenendo da alcuni mesi un confronto serrato all’interno del movimento sindacale, e il Mozambico, dove poche settimane fa – e in vista delle elezioni del prossimo 15 ottobre – è stato firmato un accordo di pace tra governo e gli ex guerriglieri Renamo (Resistenza Nazionale Mozambicana). Si tratta di contesti che si stanno evolvendo positivamente. Viceversa è indubbio che l’epidemia di ebola ha dato un colpo forte alla narrativa positiva generale che si ha dell’Africa.
In molti degli scenari che Lei ha citato la principale organizzazione continentale – l’Unione Africana – e le altre organizzazioni regionali africane hanno provato e stanno provando a giocare un ruolo importante nei processi di stabilizzazione. Quant’è incisiva la loro azione?
Mentre si è sempre giudicata in termini positivi l’esperienza di trovare una soluzione africana ai problemi africani, anche attraverso l’utilizzo di organismi regionali, c’è attualmente un momento di valutazione circa il coinvolgimento diretto di questi stessi organismi. Il successo di questo approccio ha fatto sì che tale metodo sia stato trasposto anche fuori dal Continente africano in senso stretto, come per esempio in Medio Oriente, dove si sta tentando di costruire coalizioni di attori regionali per affrontare i principali problemi, innanzitutto in termini di sicurezza. Al tempo stesso per certi versi, però, il fatto che gli Stati africani si siano presi la responsabilità di intervenire nei Paesi vicini ha sì da un lato contribuito all’avvio di processi di pacificazione ma, dall’altro, ha allo stesso tempo reso più instabili i Paesi che sono intervenuti. Penso in particolare al caso della Somalia e alla conseguente destabilizzazione del Kenya – impegnata all’interno delle strutture dell’AMISOM – come dimostrato in occasione dell’attentato di al-Shabaab allo shopping mall Westgate di Nairobi. Dopo dieci anni di “risposte africane a problemi africani” potrebbe essere questo il momento per tracciare un bilancio e rivederne l’azione, anche in considerazione del fatto, appunto, che il modello viene ora utilizzato e sperimentato anche in altre aree del mondo.
Si diceva che l’ebola ha riportato l’attenzione soprattutto sulle criticità dell’Africa: se consideriamo che solo nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno deciso di inviare un contingente di 3000 uomini nelle regioni colpite, la comunità internazionale ha forse deciso troppo tardi di mobilitarsi? L’Italia può avere un ruolo nel contrasto alla diffusione del virus non solo in termini umanitari ma anche di ricerca?
Sicuramente c’è un ritardo sulla questione: un’epidemia che è nata nel 1976 nell’allora Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) e che oggi scoppia con una virulenza straordinaria senza che sia stato trovato un vaccino è segno che qualcosa in questi quasi 40 anni non è stato ritenuto prioritario. Ora si cerca di trovare risposte il più velocemente possibile con tutte le difficoltà, però, che derivano dal dover gestire un’epidemia così devastante in Paesi dove i sistemi e le strutture sanitarie sono estremamente fragili e poco capillari. L’Italia può fare sicuramente tanto: in particolare noi siamo uno dei leader del Global Alliance for Vaccines and Immunisation (GAVI), un grande fondo globale a cui vengono destinati risorse per i vaccini. Considerato che nel 2015 inizierà il replenishment del fondo, io credo che è proprio in questo settore che il nostro Paese può far sentire la propria voce; così credo anche che ci debba essere un maggior impegno da parte nostra a far sì che strumenti innovativi di aiuto come GAVI possano effettivamente essere utilizzati per prevenire altre situazioni tipo quella di ebola.
L’Italia ha d’altra parte sempre avuto a cuore le tematiche africane. Durante la scorsa estate sono state molte le visite – da parte del Premier Renzi, del vice Ministro degli Esteri Pistelli e del vice Ministro per lo Sviluppo Economico Calenda – nel Continente. Quale sarà il ruolo dell’Italia in Africa in futuro e come si sostanzia il suo impegno soprattutto nel Corno che è sempre stata per noi un’area di interesse strategico?
L’Italia conosce bene la rilevanza strategica dell’Africa e ha dato chiari segnali sulla volontà di perseguire negli investimenti nel Continente, determinando innanzitutto alcune priorità: Corno d’Africa, Mozambico e alcuni Stati dell’Africa Occidentale. L’azione del nostro Paese si sviluppa già da tempo su due importanti binari: da un lato uno sforzo nel supporto ai processi di pacificazione e stabilizzazione delle aree di conflitto, anche attraverso un impegno coordinato con le organizzazioni internazionali (ad esempio la missione UE di addestramento e di qualificazione delle forze di sicurezza somale), con le comunità economiche regionali e con gli organismi panafricani. Dall’altro lato possiamo dare un forte contributo ad uno sviluppo mutuo con l’Africa, nel senso che il nostro ciclo produttivo è interessante per la realtà africana ed interessato ad entrare in mercati emergenti come, appunto, quelli africani. L’Italia può davvero pensare di dar luogo ad una strategia che colleghi i mercati africani a quelli europei passando attraverso il nostro Paese.
Lei ha citato più volte il Mozambico, dove peraltro ha lavorato. Noi abbiamo avuto sempre un ruolo molto attivo nel Paese, tradizionalmente con la Comunità di Sant’Egidio e poi anche nel dare seguito al processo di pace. In questi giorni si terranno anche le elezioni. Come può l’Italia sostenere lo sviluppo di questa realtà in un momento così cruciale della storia mozambicana?
È proprio l’esempio del Mozambico che spiega bene cosa vuol dire cooperazione italiana allo sviluppo. Pur avendo molto investito nel territorio – soprattutto per quanto riguarda il settore energetico – è la relazione che si è costruita nel corso degli anni, da addirittura prima dell’indipendenza e successivamente attraverso la mediazione delle nostre amministrazioni locali, che fa del nostro Paese un partner strategico per lo sviluppo politico del Mozambico. La visita del Min. Calenda di quest’estate, che ha contribuito alla mediazione dell’accordo di pace attraverso il colloquio diretto con il leader del Renamo, Afonso Dhlakama, va a rafforzare un rapporto già di per sé basato su una fitta rete di relazioni politiche e diplomatiche, oltre che di interessi economici reciproci. Il Mozambico è il simbolo di quello che noi dovremmo fare in Africa: costruire su quello che già c’è, rinfrescare quello che c’è stato negli ultimi anni, rafforzare la presenza economica e politica in un’ottica vantaggiosa per entrambe le parti. Il Mozambico può quindi considerarsi come il modello della cooperazione italiana, non tanto in termini di aiuti, ma intesa soprattutto come presenza politica, diplomatica ed economica.