Una delle operazioni letterarie più delicate è quella che riguarda la traslitterazione di un testo. Nella conversione da una forma all’altra è insita una perdita che ossimoricamente viene avvalorata dall’acquisizione di qualità altre. Nel passaggio da un codice a un altro l’opera si riempie dei significati in simboli che l’autore della trascrizione le vuole assegnare. Il regista lettone Alvis Hermanis ha compiuto questa operazione mettendo in scena la versione teatrale del racconto Le signorine di Wilko, dello scrittore polacco Jaroslaw Iwaszkiewicz, testo che si caratterizzava per il registro poetico della narrazione. Nel romanzo la dimensione temporale fa riferimento alla fine della prima guerra mondiale e vi si respira un’aura malinconica che avvolge i personaggi nella nostalgia di un tempo passato rimasto cristallizzato nella memoria individuale.
Il protagonista è lo studente universitario Viktor Ruben che in estate si reca a Wilko presso gli zii la cui abitazione si trova vicino alla fattoria di una famiglia benestante. Qui conosce le sei ragazze che la abitano, con ognuna delle quali stabilisce un rapporto diverso: alle due minori, Zosia e Tunia, dà ripetizioni di latino, a Jola fa da istitutore, con Julcia e Kazia stabilisce un’intesa intellettuale, mentre con Fela instaura un rapporto sentimentale. Ma il primo conflitto mondiale spariglia le carte, Viktor resta lontano dal villaggio per lungo tempo e solo dopo quindici anni decide di tornare a Wilko. Adattando il testo per il teatro Hermanis si trova di fronte ad una sfida: rendere “visibile” la poesia di cui è intessuto il romanzo e tradurre in gesti visibili i dettagli e le sensazioni che emergono dalla lettura.
Nella versione teatrale il sipario si apre su Viktor che, malato e depresso, giace in una modesta cameretta con un letto ed un armadio. Racconta di avere accettato il consiglio del suo medico e di avere deciso di tornare a Wilko per rimettersi in salute. Dall’armadio alle sue spalle escono una per una le signorine della fattoria. Dagli abiti che indossano, eleganti, squadrati, ispirati allo stile militare e allo stesso tempo sexy, si comprende subito che siamo nella seconda metà degli anni quaranta. Le ragazze di una volta sono adesso donne, qualcuna sposata, una separata, ma manca Fela, morta ancora giovane di febbre spagnola. Viktor viene coinvolto dall’interesse che ancora dimostrano nei suoi confronti, ma non possiede più né vigore né entusiasmo, è un uomo spento, privo di qualunque desiderio. Tuttavia si lascia andare alle lusinghe che di volta in volta gli vengono rivolte. Ma si ritrova in un circolo nel quale non riesce a riconoscere un’uscita. Lui e le sue “signorine” sono irretiti dai ricordi di ciò che hanno vissuto, dalla nostalgia per un tempo che non può tornare. Alvis Hermanis li pone simbolicamente in grandi teche di vetro nelle quali si dibattono nella speranza di recuperare quello che è stato perduto, dalle quali entrano ed escono freneticamente; li fa immergere in un acquario che li isola, creature sperse in una dimensione senza tempo. Imprigionate in un enorme reticolo di paglia, le sei donne cercano di dipanarne i fili per emergere dalla reclusione dei ricordi:desideri nascosti, rancori repressi, attrazioni sensuali vissute o solo sognate. Al centro delle loro brame un uomo che non ha ancora risolto le incertezze e la vaghezza della gioventù fuggita, un uomo a cui si rivela un’ultima verità: l’impossibilità di far convergere la realtà presente con i sogni non realizzati. E’ Tunia, la piccola fanciulla di un tempo, che forza la mano: già innamorata del giovane di una volta vuole consegnarsi a lui come sposa. Ma Viktor non ha la forza per cambiare il destino, non possiede le risorse per colmare il vuoto che si è creato fra passato e presente, e finisce per rifiutarla. Nell’armadio da cui sono uscite le sorelle trovano Tunia impiccata ad una corda. Lentamente, una per una, ritornano nel buio da cui sono emerse, dentro l’antro della memoria a cui le aveva consegnate il tempo, mentre la musica fascinosa e sensuale di un tango si diffonde nell’aria.
Alvis Hermanis riveste dal 1997 l’incarico di direttore artistico e di sovrintendente del New Riga Theatre con il quale ha prodotto numerosi allestimenti. Segnalatosi come uno dei registi europei più interessanti e innovativi per le messe in scena caratterizzate da una commistione di stili ed estetiche teatrali differenti, è solito creare originali combinazioni di immagini e simboli propri, con trasposizioni di periodi storici e culturali diversi tra loro, attingendo dal vasto patrimonio culturale di occidente ed oriente. “Siamo nel XXI secolo e stiamo vivendo enormi cambiamenti nella coscienza europea.- ha dichiarato- Si può dire che siamo, in questo momento, testimoni della morte della vecchia e buona Europa. E qualsiasi lavoro artistico che viene creato oggi ha, in tale contesto, l’aspetto di un necrologio. Necrologio alla percezione della vita della vecchia Europa. Restano solo i ricordi”.
Anna Maria Bonfiglio