Il dolore, l’arresto della vita fanno apparire il tempo troppo lungo; ma gli anni se ne vanno sempre con la stessa rapidità. Trascorro intere giornate a osservare la natura, il graduale calmarsi della natura: tutte le mie idee diventano in quei momenti vaghe, indecise, la tristezza selvaggia riposa nei miei occhi senza stancarli, e i miei sguardi errano sulle pietre qui attorno; ogni luogo è un amico che rivedo con piacere. Luoghi che non conosco diventano per me una specie di proprietà; ve ne è uno, lassù, in alto sulla scogliera, dove le gobbe calcaree declinano cerimoniose e letargiche verso l’acqua; e mi pare quasi che una oscura reminiscenza mi dica che io vissi lassù o nell’acqua in tempi lontani, la cui precisa impronta si è in me cancellata.
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In un’atmosfera quasi irreale all’interno di un sotterraneo un uomo solo si circonda di statue, parla con loro, evoca ricordi, perde il senso del tempo e il controllo della vita. Esce raramente, per lo più di notte, e sua unica attività è una continua, silente cerimonia dedicata agli assenti.
“Viveva nei sotterranei della sua grande casa, gremiti di statue, in gran parte effigi commemorative — uno stile lapidario che dilagava quasi sino al mare. Perché i suoi sotterranei, come le fogne, andavano verso l’acqua. A Beeklam dava un senso di sollievo sapere che bastava una fenditura, una crepa, per avvertire il movimento delle onde: di un mondo sommerso che credeva abitato da altre statue con i piedi, se ancora ne avevano, legati a sassi; e quei sassi o quelle nocche bussavano alle sue pareti. Non vi era nessuno che lo spingesse via, mentre se ne stava con il capo poggiato al muro e aspettava — forse che tornassero o che le statue d’acqua lo richiamassero all’ordine. Il bambino ora desiderava vivere da annegato. Udiva invece dalle fogne il sonno frusciante dei serpenti. Non vi era nessuno che lo spingesse via, poiché era solo.”
Già il titolo allude a una distorsione, a uno snaturamento. Non si sono mai viste statue d’acqua, ovvio, ma si incontra poche volte un punto di vista “diverso” come questo di Fleur Jaeggy. Un punto di vista che parte da un “altrove”, ma non segue alcuna regola temporale o di luogo.
Una scrittura, la sua, essenziale, tagliente, affilata come una lama. Con grande ritmo e grande musicalità.
Uno stile così apparentemente distaccato, ricco di spazi vuoti e zone buie; che risulta perfetto per descrivere storie inquiete e vitali che appaiono racchiuse in un labirinto senza uscita.
“Nei miei sotterranei l’umidità scorre e si direbbe quasi che le statue irrigate passeggino, senza ragione, uccelli di palude, che declinino verso l’oscurità e cadano al di sotto dell’orizzonte; ma è soltanto un effetto di luce bagnata, e forse della mia impazienza. Non invidio la tempra degli avvoltoi e delle stelle, eppure mi è stato in qualche caso difficile voltare le spalle al richiamo naturale delle onde. Da cinquant’anni oscillano i teli alle mie finestre. Amsterdam è la mia città, dove l’acqua continua a scorrere senza una vera fine, e con l’acqua ho avuto sanguinose dispute giudiziarie, ma eviterò di fare incursioni nell’ambito della legge.”
Il dolore e la sofferenza ci rendono infelici e solo la solitudine e il silenzio possono essere le cure per alleviare queste eterne afflizioni. Questo sembra uno dei messaggi in bottiglia che una lettura così forte (che la Jaeggy dedica a Ingeborg Bachmann, che l’ha incoraggiata verso la letteratura) ci offre.
Fleur Jaeggy, Le statue d’acqua, Adelphi edizioni 2015.