Si rimprovera al genere horror di esser diventato forma d'intrattenimento uguale a sé stessa, affossata da una mancanza di idee che per evitarne il declino (sparizione?) vanno a riversarsi spesso nella realizzazione di remake d’eccezione che riesaminano, aggiornano o, semplicemente, ripropongono, privo di essenza e giustificazione, un vecchio titolo del passato di cui magari sono disponibili già molteplici e differenti versioni.
A Rob Zombie - che di remake se ne intende (anche se a lui i suoi due “Halloween” non piace chiamarli così) - si potrebbe dire tutto tranne che non cerchi di dare all'horror un’impronta esclusivamente personale e interessata ad esplorare dei schemi anticonformisti, prendendo lo spettatore alla sprovvista e ponendolo davanti a un prodotto che se non altro risulta diverso e ignoto perfino a una massa di appassionati. E questo non significa che il regista ami voltare le spalle ad alcune direttive intrascurabili del genere, anzi, tutt'altro, significa infatti rispettarne le basi fondamentali per poi andare a costruire sopra di esse un qualcosa che però si differenzia nettamente da una omologazione ormai stanca e stancante.
“Le Streghe di Salem” allora ha come incipit quel solito oggetto maledetto che una volta a contatto con lo sfortunato di turno scatena le forze del male su l’intera umanità, e questa volta la maledizione è distribuita da un disco in vinile (la musica è un’altra passione di Rob Zombie, nulla è lasciato al caso) recapitato alla protagonista e in seguito trasmesso dal programma radiofonico per cui lavora su tutto il territorio della sua cittadina, quella di Salem appunto. Da questo semplicissimo appiglio Zombie si esalta e scatena pertanto la sua irrefrenabile immaginazione, ripescando il prologo iniziale - in cui delle streghe sacrificano una giovane donna moltissimi anni prima - e infettando la vita, ora pulita anche dalla droga, della povera Heidi attraverso manipolazioni, sacrilegi e maledizioni che la vedono predestinata a una funzione raccapricciante.
Non c’è da scandalizzarsi quindi se, durante la (lenta) visione, lo spettatore provi una sorta di estraniamento da tutto questo, sentendosi a disagio magari di fronte ad alcune scene politicamente scorrette e ad altre dove l’eccesso fa da padrone. E’ un approccio diverso di fare cinema, a cui sarebbe un azzardo chiedere un comportamento più equilibrato, dato che è evidente che chi lo produce non si sente affatto persona simile.
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