La lingua è un sistema che cambia lentamente e in modo non controllabile. Il linguista e antropologo Edward Sapir ne era consapevole quando nel Novecento coniava il noto concetto di “deriva”, paragonando i “movimenti delle onde” ai mutamenti che investono tutte le strutture linguistiche, non nella loro totalità e per motivi diversi, talvolta in modo curiosamente “ciclico”; si pensi, per fare solo un esempio, alla formazione del futuro dalla lingua latina e a quella italiana, che della prima è figlia: il sintetico AMABO è mutato prima nella forma analitica AMARE HABEO, per poi tornare alle origini con “amare”.
Prima che tali cambiamenti siano recepiti dalla norma scritta, che è per sua natura molto più conservativa rispetto a quella parlata – talvolta rigorosamente diversa dalla prima, come nella lingua francese – devono essere registrati con forza in contesti poco controllati: nelle conversazioni e nelle discussioni di tutti i giorni, per esempio. La stessa lingua italiana è figlia non del latino classico, scritto e codificato, di cui abbiamo una ricca documentazione con gli scritti di Cicerone, ma di quello popolare, «una lingua – scrive il linguista e filologo romanzo Alberto Varvaro in Linguistica Romanza. Corso introduttivo – che conserva quasi del tutto la norma classica, ma conosce anche, soprattutto nelle realizzazioni parlate ed ancor più in quelle basse, un’ampia gamma di variazione da tale norma, variazione che rimane sempre non sistematica. Il senso dell’appartenenza ad un’unica comunità civile e culturale mantiene sotto controllo questo pullulare di scostamenti dalla regola. Le lingue romanze non provengono dal latino del volgo, come non provengono da quello dei classici, ma da questo complesso e variegato insieme del latino tardo».
La storia della lingua italiana è un po’ particolare, non essendo nata come idioma condiviso da tutti e irradiato da un unico centro socio-culturale, bensì grazie a spinte policentriche e sicuramente tardive rispetto alle altre aree romanze. Nella ricerca di una lingua del popolo per la rifinitura della Quarantana del romanzo I Promessi Sposi, Alessandro Manzoni fu costretto, infatti, a “inventare” una lingua per il popolo, avendo impedito, gli innumerevoli dialetti, la formazione di un mezzo di comunicazione utilizzato, e quindi compreso, da tutti; Renzo e Lucia non erano due intellettuali e, volendo dar loro voce, Manzoni dovette per forza cercare di costruire una lingua nuova, diversa da quella scritta e in grado di far comprendere la sua opera in tutta la Penisola; l’italiano era stato una lingua letteraria, conosciuto da una élite ristretta e da tale élite discusso e imposto negli anni della cosiddetta “Questione della Lingua”. Iniziata sin da prima del 1525, anno della pubblicazione delle Prose della Volgar Lingua di Pietro Bembo, con Dante Alighieri, ma che vede lo stesso Bembo e poi Manzoni protagonisti indiscussi, ma non completamente sostenuti dagli intellettuali del tempo, ha fatto discutere anche Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. Si può dire con certezza, insomma, che l’unità linguistica sia nata dopo il 1861, a seguito delle ondate migratorie e della guerra – per non parlare della notevole importanza della televisione –, che, prim’ancora della scuola, e con molta più efficacia, furono le cause principali di una costante e graduale alfabetizzazione, poi impostasi definitivamente negli anni della società di massa con l’aumento del tenore di vita.
«Il fatto che l’italiano abbia conquistato nuove classi di impieghi in cui precedentemente era usato il dialetto (o che semplicemente non esistevano) – scrive il sociolinguista Gaetano Berruto in Sociolinguista dell’italiano contemporaneo –, e sia divenuto sempre più lingua di socializzazione primaria e lingua d’uso di una buona fetta della popolazione non può, in effetti, non essersi riverberato sulla struttura linguistica e sullo status dell’italiano. Da una parte esso ha perso in buona misura il carattere di lingua paludata e burocratica che aveva ancora negli anni Cinquanta; dall’altra, i tratti stessi della varietà standard stanno mutando».
Dal lontano Cinquecento, superati gli anni Cinquanta, siamo arrivati agli ultimi decenni, dunque: l’italiano scritto e letterario, che vien quasi difficile definire “italiano”, è divenuto “lingua di tutti”, anche di coloro che, pur non padroneggiandone le strutture, cercano di utilizzarlo nel migliore dei modi in contesti in cui il dialetto, che è l’unico strumento che sono in grado di dominare, è assolutamente stigmatizzato (un contadino analfabeta cercherà con tutte le sue forze di esibire un italiano come minimo comprensibile, parlando con l’insegnante di suo figlio, per esempio).
Diventando “italiano di tutti”, la nostra lingua è stata sottoposta a una serie di cambiamenti che sta preoccupando alcuni linguisti, per via di un possibile ma non sicuro impoverimento, e ha incuriosito, e continua a farlo, molti altri. Si tratta di mutamenti graduali, che rispondono sicuramente a esigenze particolari; prima fra tutte, la semplificazione: essendo la lingua il più utile e completo strumento di comunicazione, non può essere eccessivamente complessa e, nelle strutture in cui dovesse presentarsi come tale, sarebbe senz’altro destinata alla deriva di cui parlava Sapir. Si pensi ai continui “movimenti” del sistema pronominale, che è una tra le parti più critiche della nostra grammatica: il tripartito “questo quello codesto” è stato sostituito dal bipartito “questo quello”; i personali “egli ella essi” sono stati sostituiti da “lui lei loro”; una serie di cambiamenti, insomma, ha investito la norma standard, quella codificata nelle grammatiche, portando all’affermazione di tratti neo-standard, che, accettati nel parlato, sono il più delle volte, ma non ingiustamente, condannati nei contesti controllati (soprattutto se scritti).
Si sta assistendo, quindi, a un forte avvicinamento tra due mondi assolutamente diversi, che ha dato origine a forme solo relativamente nuove; le dislocazioni a destra e a sinistra, per esempio, sono attestate sin dall’Ottocento e hanno caratterizzato gli scritti giornalistici sin dagli anni Ottanta; si vedano, a titolo d’esempio, le seguenti frasi:
- La parola alla gente bisogna darla subito (l’Unità, 24 maggio 1983);
- A Cory che cosa le rimane da fare? (la Repubblica, 11 febbraio 1986).
dove è evidente la ripresa (senz’altro ridondante e non consigliabile) di un elemento già indicato in precedenza (“la parola” e “Cory”) con i pronomi “la” in “darla” e “le”.
Visto quanto sta accadendo, oggi risulta al limite dell’accettabilità – e non più condannato senza possibilità d’appello, almeno nel parlato – l’utilizzo del pronome “gli” invece di “le”, quando si indica un referente di genere femminile, e persino del tutto accettabile l’uso dello stesso pronome in luogo di “loro” (in questo caso proprio Luca Serianni, linguista che tende a rispettare lo standard in maniera rigida, ne considera legittimo l’utilizzo anche nello scritto).
Il processo, azzardando delle ipotesi, potrebbe portare a una ulteriore riduzione del sistema pronominale, che, in effetti, è davvero uno tra i più complessi della nostra lingua:
«Il sistema pronominale personale dello standard – scrive Gaetano Berruto – è sovraccarico di differenziazioni e di forme; conta almeno 28 elementi, nelle due serie dei tonici e dei clitici […], che realizzano, in maniera non regolare e con doppioni, quattro fondamentali opposizioni grammaticali: singolare/plurale, maschile/femminile, caso […], animato/non animato (e trascuriamo l’opposizione umano/non umano che pur sembra vigere fra egli e esso). Il tutto, ulteriormente complicato da differenziazioni diatopiche o diafasiche (ella per esempio è solo di stile molto elevato), e dagli allocutivi».
Non è detto, comunque, che avvenga, essendo il sistema influenzabile non soltanto da variabili strettamente linguistiche, ma anche da fattori sociali, storici e politici.
“Semplificare” non significa ridurre obbligatoriamente il numero di elementi che compongono le strutture della lingua, soprattutto quando ciò potrebbe comportarne una minaccia per l’equilibrio. Uno fra i tratti dell’italiano neostandard, per esempio, è l’estensione dell’uso dell’indicativo in contesti in cui servirebbe il congiuntivo: frasi come “penso che è andato al mercato” non stridono – perlomeno non eccessivamente – neanche in contesti mediamente sorvegliati; eppure, il verbo “pensare”, che appartiene alla categoria dei verba putandi, necessita del congiuntivo passato “sia andato” e non di altra flessione; in questo caso, per rendere più facile la lettura si è soliti omettere la congiunzione subordinante “che” e realizzare produzioni come “penso sia andato”. Se dovesse affermarsi, però, l’utilizzo indiscriminato dell’indicativo in luogo del congiuntivo, tale omissione non potrebbe essere più possibile (una frase come *penso è andato è scorretta); continuando a ipotizzare, e non senza richiamare l’importante concetto di equilibrio, si assisterebbe, dunque, sì all’affermazione dell’indicativo con i verba putandi, ma altresì al ricorso a un numero maggiore di congiunzioni e avverbi, necessari per specificare diversamente la modalità dell’azione prima espressa con il congiuntivo; ci sarà sempre, insomma, un do ut des tra le microstrutture del sistema.
I tratti presentati finora sono soltanto alcuni di quelli che caratterizzano l’italiano neostandard, che è una nozione comunque applicabile – secondo Luca Serianni – al parlato e non allo scritto; stando alle parole del linguista sarebbe impossibile, infatti, uno stravolgimento di tale norma, che continua a imporsi con forza ovunque. Sabatini ha individuato ben trentacinque caratteristiche del nuovo standard, soprattutto a livello morfo-sintattico (i cambiamenti lessicali non sono molto indicativi in questo tipo di indagini, essendo, il lessico, lo strato più esterno della lingua, quindi la parte che di essa è più soggetta a influenze di altri idiomi, che non di rado generano prestiti e calchi di varia natura).
Tra questi andrebbe considerato, proprio per riproporre il concetto di “ciclicità” del cambiamento accennato agli inizi, la sostituzione dell’articolo determinativo “il” con l’aggettivo dimostrativo “quello”; frasi come “quello che era un idolo delle teenager” in luogo di costrutti come “l’idolo delle teenager” sono, infatti, molto frequenti in gran parte della produzione in lingua italiana e potrebbero far pensare a un ritorno alle origini delle lingue romanze; l’articolo determinativo, infatti, nasce proprio da ILLE latino, che è un dimostrativo, per l’appunto; si sta verificando, quindi, quanto accaduto al futuro, prima sintetico, poi analitico e, infine, nuovamente sintetico.
Se tali cambiamenti vadano combattuti, è forse inutile chiederselo, e se sono democraticamente (ma inconsapevolmente) accettati, purché questa accettazione democratica non sfoci nella più terribile anarchia e corruzione del sistema, opporvisi corrisponderebbe a pura follia: la lingua è pur sempre, richiamando Ferdinand De Saussure, capostipite dello Strutturalismo, un “contratto sociale”.
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