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Le Tre Letture di “Atto di Forza”

Creato il 28 luglio 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Le Tre Letture di “Atto di Forza”La realtà non esiste. Nulla è mai successo veramente e mai succederà. Tutto quello che crediamo accada è pura e semplice ricostruzione dei nostri sensi imperfetti, deboli, fallaci. Perfino il dire qualcosa presuppone un non-detto, spesso più importante di quello che si sceglie di dire. E un’opera d’arte non trasmette mai un messaggio univoco, né a cento persone, né a due, nemmeno alla stessa. Prendete “Atto di forza” (titolo originale “Total Recall”), film del 1990. Lo vidi a 13 anni per la prima volta e ai miei inesperti occhi esso apparve come il più maestoso connubio tra azione e fantascienza mai apparso sulla Terra (nell’età puberale si è sempre assoluti). Schwarzenegger era il granitico prototipo dell’eroe per caso che salva Marte dalle grinfie affaristiche dell’imprenditore senza scrupoli di turno. La ricostruzione del pianeta rosso era sfolgorante e la storia lambiva temi che cominciavano a tormentare la mia mente bramosa di riflessioni: il futuro, la presenza di vita su altri mondi, il libero arbitrio. E poi, più prosaicamente, c’era lei, la mitologica “donna dalle tre tette”: a lungo ella ha turbato i miei confusi sogni erotici. Rividi la pellicola a 20 anni, nel pieno di un ciclone idealistico che mi aveva portato a un inveterato odio verso la cultura yankee e tutto ciò che proveniva dalla patria del cheeseburger. Nella mia furiosa demolizione degli schemi di pensiero che la società occidentale ci inculcava sin da neonati, “Atto di forza” mi sembrava il prodotto degradante di un cinema asservito alle più bieche logiche produttive.

Le Tre Letture di “Atto di Forza”

Paul Verhoeven, il regista, e Arnold 7 volte Mister Olympia (la più famosa gara di culturismo), erano due europei venduti (essendo il primo olandese, il secondo austriaco) che avevano liquidato il loro grandioso retroterra culturale per ottenere il successo tra i mangiatori di hamburger. I temi che avrebbero potuto essere desunti da una storia ispirata da un racconto breve di Philip K. Dick erano, come al solito, annegati sotto la coltre di grossolanità tipiche di Hollywood. L’arco narrativo era occupato per tre quarti dai muscoli inespressivi e dopati dell’immigrato più famoso d’America (così la rivista “Time” lo definiva in quegli anni) e per il resto da esplosioni insulse. Il razzismo statunitense era ben visibile nella rappresentazione dei mutanti, ridotti a pedine sacrificabili nei sobborghi fatiscenti a cui tanto Cinema correo si compiace di inscriverli. E poi, più femministicamente, la mitologica “donna dalle tre tette” era la condensazione aberrante del volgare machismo occidentale che pretende donne sempre più anamorficamente prosperose, addirittura mostruose, per mendicare loro un po’ di attenzione. Adesso, a 33 anni, alle soglie di un sacrificio imposto dall’omologazione (insomma, il matrimonio!), rivedere “Atto di forza” regala emozioni diverse. La nostalgia riveste il passato del suo velo pietoso e persino l’ex governatore della California, l’ormai attempato Schwarzy, mi sembra che offra un’interpretazione simpatica. Rinchiudere il suo spropositato fisico da culturista nei panni sgraziati di un operaio edile sarà forse una scelta ardita ma latrice di una filosofia tutta americana.

Le Tre Letture di “Atto di Forza”

Più che l’horror, come sosteneva un mio professore di storia del cinema, è il genere action infatti che meglio di tanti studi sociologici racconta le ideologie U.S.A.: Douglas Quaid è lo specchio perfetto del sogno americano, dell’idea che al momento opportuno l’uomo giusto prenderà in mano il suo destino e otterrà la superiorità (agli americani interessa dominare, non governare) a cui egli aspira sin dall’inizio della vicenda. La massa, realisticamente, non avrà mai il controllo dello Stato e allora i poteri forti attraverso la “fabbrica dei sogni” (ossimoro cinicamente pregnante in cui la stessa Hollywood dai primordi si è calata) consentono ad essa un’evasione fracassona dalla dura vita di tutti i giorni. Solo secondo una lettura ingenuamente apolitica “Atto di forza” può essere visionato serenamente, anche se zeppo di idiosincrasie. Difetti patenti come la presenza pedissequa di tutti gli stereotipi dei film d’azione possono così scivolare via senza fastidio. Il canovaccio è semplice e lineare: il buono si redimerà dal suo passato uccidendo prima il leccapiedi brutale e poi il tycoon capitalista. Che le morti, in questo lungometraggio, abbiano una componente splatter abbastanza straniante per il genere è indice non tanto della cifra stilistica di Verhoeven quanto del manicheismo americano che il regista abbraccia con tutta la sua pericolosità già dai tempi di “RoboCop”: i cattivi meritano di morire perché hanno fatto la scelta sbagliata.

Le Tre Letture di “Atto di Forza”

E quella sorta di fatalismo evangelico del genere, che prevede sempre la vittoria del buono ha la funzione di un oppiaceo sociale. Il bacio finale tra i due protagonisti cos’altro suggella se non la voglia di mantenere desta quella facoltà sognatrice che fa sembrare la vita più sopportabile? La storia si conchiude in questa maniera, a mo’ di favola buonista ma questo allo spettatore basta e avanza: il futuro di Marte, adesso che ha un’atmosfera e con i freaks vincitori con la loro ribellione, è cinematograficamente poco allettante. Ma, come detto, la patina della nostalgia che tutto avviluppa, anche la bruttezza, purché sia passata, fa sì che queste prese di posizione, così marcatamente iconoclaste, cedano il passo a un sano revisionismo. Sì, sano, perché se nulla esiste, nemmeno la realtà, allora anche solo l’idea di qualcosa che possa assurgere al trono della moralità è fuori discussione. Oggi (domani non sarà così, ma che importa?) allora “Atto di forza” mi diverte come lo faceva da ragazzino, pur avendone smascherato tutti i messaggi subliminali. L’azione è veloce e spumeggiante, la storia ben costruita, i colpi di scena inseriti al momento opportuno senza forzature, Sharon Stone è all’apice della sua folgorante bellezza, i mutanti, pur con il doloroso sacrificio del loro leader Kuato, vincono. Queste sono le mie tre letture di una pellicola, o forse dovrei dire erano tre delle mie personalità, o forse erano tre film diversi, visto che ho cercato di argomentare l’inesistenza dell’Uno.


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