“Oltre il muro l’orizzonte era così ampio da spaventare. Il mare non si doveva toccare perché era maledetto. Entrava negli occhi e increspava le onde per imporre il loro dovere di brillare. Luce. Fosco era accecato dalla luce, a dispetto del nome che era uno straccio di cotone buttato sulle case, con l’intento di trattenere e nascondere”
Alcuni libri sono angoli molto luminosi nei quali ti rifugi. Senti un nodo alla gola e gli occhi diventare lucidi. Sono belli certi libri. Sono belli e basta. Come annusare i fiori, perdersi in uno sguardo sorridente, cercare l’etimologia di una parola… Esistono libri incastrati nel silenzio del tempo. Paola Cereda ed il suo “Le tre notti dell’abbondanza” mi hanno fatto perdere e ritrovare in 6 secondi netti.
Fosco è un piccolo paesino calabrese sulla punta dello stivale. Un paesino sul mare dove il mare ce l’hai sotto gli occhi ma devi far finta che non ci sia. Dove le regole sono dettate da ‘zzi Totonnu ed i suo ‘gnuri. Dove vige l’omertà, dove ‘i fimmani sono meno dei masculi. Il luogo degli amori impossibili, dei genitori malavitosi, delle contraddizioni degli uomini che sono spesso più morti che vivi. In tutto questo grigiume di anime, i taccuini di Irene sono il filo rosso che lega alla speranza le vite di una generazione diversa.
Irene, Lorenza, Gianna e Sebastiano (u Prìncipi) sono figli di Rosario e Nuzza. Imparentati con Totonnu, colui che regola l’ordine delle cose con leggi non scritte, basate sul rispetto, sui legami di sangue ma ancora di più sull’onore. Perché “zi’ Totonnu c’è e comanda. Questa è la natura. Non si cambia”.
Irene condivide la sua adolescenza con Rocco e ‘Ngiulino. Un appartenersi senza esserselo detto. Accomunati da quell’essersi “rotti”, dentro, da qualche parte. Uniti soprattutto dal desiderio di cambiamento e di libertà. Sopra ogni cosa la libertà di essere se stessi senza l’oppressione di quel “sangue” che chiama spesso a quel tipo di “giustizia personale” che ha il sapore amaro della vendetta e della perdita. Perché siamo ciò che scegliamo di essere. A Fosco, l’uccisione del maiale è pratica invernale, simbolo di abbondanza e buon augurio, un obbligo all’allegria, ma anticipata all’estate, quasi come funesto presagio, scandirà un susseguirsi di eventi che trasformeranno una “festa” in una “strage”. Una sorta di temporale, la fine del temporale. Destino è una parola bellissima. Ma spesso incatena. E provate a non andare a sbattere quando ci sono più muri che orizzonti. Sembra che manchi tutto…pezzi di sé, di altri…persino il respiro. Sei lì a spostare le illusioni un giorno avanti, ogni notte. Ti perdi continuamente.
Si, destino può essere una parola bellissima. Eppure la forza di questo libro sta tutta nelle donne e negli uomini che ad esso si ribellano. E si ribellano alle convenzioni imposte. Alle vite già scelte. Ai cognomi che definiscono i ranghi. Così, all’improvviso, ogni cosa ricomincia a diventare importante, salvezza. E se il bello intorno sembra esser sparito per sempre, si può provare a ricostruirlo e a colorarlo. E le voci di nuovo. Quelle che non si sentivano da un po’. E le cose che si toccano che sembravano lontanissime. Ed il mare. Perché il mare è uno spazio da abitare.
Perché se sai guardarle le cose, forse, non fanno più male. Si, certe cose che accadono, all’apparenza banali, sono in realtà piene fino all’orlo di meraviglia. Certi libri sono come un posto giusto per fare pace, sono come un posto nuovo da cui osservare il mondo, magari sulle note di “Like a virgin taccd for de veri farst taim…like a virgin uen ior art biz nes tu main…” e con lo sguardo rivolto al mare, all’ora di un tramonto…il più rosso che c’è.
Questo libro è pieno di colori. Colori e orizzonti. Abbiatene cura. Farà bene anche a voi.
Recensione a cura di
ELENA LUCENTE