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Le ultime ore della faraona

Da Zarizin

 

Le ultime ore della faraona
Quando alla fattoria venne l’ora della vecchia faraona e le tirarono il collo, la Morte era imbottigliata nel traffico e non poté venire a prenderla prima delle dieci della sera.

Dapprima alla fattoria se ne fece un sottosopra. Rico, che le aveva tirato il collo, pestava i piedacci al suolo come un bambino. Era grosso poco meno di un covone e stronfiava come un toro. «Rico ha fame adesso,» protestava «Rico non aspetta». Sua madre, la quale era donna di coscienza, parlò senza indicare: «E che,» disse al figliolo «vuoi che l’animella sua la Morte gliela venga a prender su per il tuo culo?». «A Rico non importa» rispose Rico senza capire. Intanto la faraona, approfittando del trambusto, era svolazzata giú dal tagliere con l’osso del collo rotto e la testa pendoloni. «Cosí non si può mangiarla,» disse il padre «Rico, lo vedi da te: ti si divincolerà in corpo come un ossesso. Ascolta tuo padre». Rico sbruffò e prese a rincorrer la propria cena per tutta la cucina, buttando tutto all’aria. Quando l’ebbe acciuffata la strinse sul bordo della tavola e le strizzò il gozzo con tanta forza che gli occhi le sbuzzarono di fuori. Ma quella alla prima occasione gli sgusciò dalle mani e riprese la sua fuga disperata con tanto d’occhi per di fuori. «Per carità,» pianse sua madre «che spettacolo orribile». «Fa’ un favore a tua madre,» disse il padre a Rico «mozza la testa alla bestia, o ci farà venire tutti matti». Rico non se lo fece ripetere, e preso un grosso coltello acchiappò la faraona per il collo e le fece saltare la testa, come si cava il capo alle carote. Ma non ne venne che peggio. Da una parte il grasso corpo decapitato prese a divincolare i piccoli arti senza controllo, dall’altra la testa mozzata spiccava rapidi balzi continui starnazzando e dimenando il moncherino insanguinato. Allora Rico strinse il corpo per un’ala, mentre suo padre prese carponi a inseguire la testa sotto il tavolo, provandosi a acchiapparla con due mani, come si pescano i pesci di fiume. Quando anche questa fu catturata, la madre cavò di sotto la panca un bauletto per lo stoffe e ce li cacciarono dentro, corpo e testa. Il padre ci si sedette sopra con un tonfo e concluse: «Ora s’aspetta che la Morte venga e se la pigli». «E che se la mangi lei» aggiunse la madre. Allora Rico prese nuovamente a protestare. Ma suo padre lo fece tacere. «Ho mangiato tante bestie morte in vita mia,» disse suo padre «e qualcuna che in fede doveva esser viva ancora, in tempo di guerra; ma una bestia né morta né viva non l’ho mai mangiata, né mai la mangerò». «Allora le scaveremo una fossa nell’aia e ce la sotterreremo,» disse la madre «che la Morte se la venga a pigliare di lí». «E come sapremo quando alla fine se la sarà presa?». «Non lo sapremo: che marcisca una volta per tutte».

Il padre serrò il bauletto e se lo portò in mezzo all’aia, con un badile per il letame. Scavò la fossa fra le gallinelle incuriosite e vi sotterrò il bauletto, ma si prese la premura di lasciar di fuori la testa ballerina: «Cosí sapremo quando se la sarà venuta a pigliare la Morte». La madre non protestò e presero tutti per l’uscio di casa.

Alla porta però si piantarono tutti come ciocchi. Con una mano ancora sul battente stava una figura in mantellina nera con una piccola valigetta ai piedi. Poiché nessuno parlava, parlò il padre: «Morte?» chiese. Allora la figura si volse abbassandosi il cappuccio. «Non ancora,» rispose «ma non vi dureranno fino a Natale». Era il medico veterinario, e parlava di un paio di tacchinelle della famiglia malate di cimorro. «Morire s’è fatto piú difficile d’una volta, Dottore» sentenziò la madre. Quando il veterinario fu informato delle condizioni della faraona, questi domandò di vedere il bauletto. Rico fu mandato a recuperare il badile e presto la faraona venne dissotterrata. Quando il corpo menomato dell’uccello comparve agli occhi del veterinario, questi espresse il piú vivo interesse professionale. Trovò improbabile che in condizioni normali un vertebrato delle dimensioni della faraona potesse sopravvivere in un bauletto poco piú grande di sé, per piú di due o tre minuti, tanto piú che questa in particolare mancava tutt’affatto della testa. Il padre non condivise l’eccitazione del medico: «Non è stato che un impiccio» disse. Ma accondiscese a che il veterinario conducesse alcuni esperimenti sulla bestiola, per cinquemila lire, concedendo l’uso dei sanitari e della cucina.

Il corpo della faraona, che a furia di divincolarsi aveva preso un aspetto informe, insozzato di sangue, a stento si riconosceva nei brandelli che ora occupavano l’interno del bauletto. Il medico dispose una grossa pentola d’acqua a bollire sui fornelli e, cavato dalla valigetta un piccolo taccuino nero, prese ad appuntarsi una gran quantità di dati circa lo stato dell’esperimento. Tentò anche di completare un ritratto della faraona, ma, eseguita la testa, dovette presto rinunciare al resto del corpo, ridotto oramai a un brodo di carne viva. Quando la pentola fu infine scoperchiata e il bauletto vuotato fra i vapori bollenti, il veterinario rimase ammirato dinanzi allo spettacolo della immonda colluvie di umori dimenarsi nelle acque bollenti come accesa da un incanto magico. Presto la cucina fu invasa dai vapori nauseabondi della cottura, quindi le esalazioni occuparono il soggiorno e le stanze da letto, tanto che presto ne avrebbero avuto abbastanza per soffocarne, se il padre e la madre non avessero spalancato le finestre e sfatto i lenzuoli dei letti per cacciare a frustate la nube purulenta. Il veterinario, troppo occupato ad annotarsi gli straordinari esiti del proprio esperimento, se ne stava a un palmo dalla pentola a rischiare di causarsi una ustione facciale. Quando la casa fu finalmente liberata dai vapori, il veterinario soffocò la fiamma del fornello e si apprestò a recuperare il fondo della pentola con un’enorme schiumaiola da pasta. Tuttavia, con sommo stupore di tutti, non ne seppe cavare niente. Allora le pentola fu vuotata cautamente nel secchiaio, ma ciò che si trattenne tra i fori dell’utensile fu il solo gambalino di metallo applicato alle bestie dell’aia, con su scritto il nome della fattoria. Nessuno fuorché la madre sembrò capire dapprincipio.

Sotto suo ordine Rico e suo padre si sottoposero a una immediata lavanda gastrica e un bagno in acqua bollente. Il medico, estasiato dai risultati ottenuti dal prodigioso esperimento, pagò le cinquemila lire e prese per la via di casa in un delirio strologante. Quando se ne fu andato, la madre strinse il denaro in un canovaccio di panno e lo sotterrò, insieme col bauletto, nella fossa in fondo all’aia. E tutti se ne andarono a letto senza cena.

La mattina del giorno dopo in paese non si faceva che parlare del vecchio veterinario, trovato chiuso nel suo studiolo col caffè delle dieci di sera freddato sul comò, rosicchiato dai suoi topi. Quando vennero a dirglielo in fattoria, nessuno rispose fino alle undici della mattina, quando i giovani del paese sfondarono la porta d’entrata e scoprirono i tre malcapitati ancora stesi sui loro letti, mordicchiati come groviere dalla precisione della Morte.

Emiliano Garonzi


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