Non c’è una ragione precisa, e non credo sia una forma di idiosincrasia dovuta alla mania per la pulizia tipica di mia madre.
Non credo alle spiegazioni semplicistiche “causa-effetto”, come quella accampata da un professore di architettura al liceo, che pretendeva di giustificare le sue unghie sporche col fatto che la madre lo costringesse a pulirle con lo spazzolino tutti i giorni.
Penso sia più plausibile una mia innata pigrizia verso la cura del corpo e, in parte, anche dell’anima.
Dicono che non è possibile amare se non si è in pace con sé stessi. Se è così, allora non dovrei amare nessuno, perché non solo non sono mai stato in pace con me stesso, ma addirittura un po’ mi odio.
Mi viene in mente mia nonna, che aveva un negozio da calzolaia in viale Monza quando ci passavano ancora i tram, e i platani napoleonici rinfrescavano le serate estive. Diceva che ogni tanto entrava ancora qualche contadina per farsi fare gli zoccoli, e avevano le unghie degli alluci così lunghe e sporche, che una volta gliele ha tagliate con le tronchesi fingendo di sbagliarsi.
Sembra incredibile, ma mia nonna era davvero così. Se non liberavo in fretta il bagno era capace di innaffiarmi con la canna della lavatrice, altre volte invece, per divertirmi, faceva suonare come una trombetta i fili d’erba.
Comunque non credo ci sia un motivo preciso per cui odio così tanto tagliarmi le unghie dei piedi. È vero però che da piccolo ero terrorizzato da quelle storie di unghie incarnite che si sentivano in giro. Anche mio cugino aveva dovuto farsi incidere un alluce infetto, e io ne ero rimasto scioccato. Ma ora sono cresciuto e queste cose non mi fanno più paura; è che proprio non mi va di perdere tempo in un’attività così faticosa - provate voi a tagliarvi le unghie con una pancia da babbo natale - e francamente inutile.
Non basta a convincermi nemmeno lo spauracchio usato da mamme e nonne per essere sempre puliti e in ordine: “E se per caso ti senti male o ti succede qualcosa mentre sei fuori? Non vorrai mica fare la figura dello sozzone mentre ti spogliano all’ospedale?”. Questo è quello che mi sentivo ripetere un’infinità di volte, proprio come era impossibile evitare l’ispezione a vestiti, unghie, capelli, orecchie, piedi, prima di uscire per andare a scuola. “Non vorrai mica che ti cresca il prezzemolo nelle orecchie vero?”.
O forse non le taglio perché il lavoro è - per fortuna - diventato così asfissiante che ho perso anche la cognizione del tempo. Jean-Cul - l’editore francese - è così lanciato che non ho più tempo per fare altro. Dieci ore al giorno davanti al computer sono diventate la norma e, durante le chiusure, tirare le undici di sera è una prassi consolidata.
A quanto pare, l’inferno sembra finito, anche se non sono più così certo del confine tra inferno e paradiso, e quale sia di preciso l’uno e l’altro.
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