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Le uve di Paolo. Il vino dei Viticoltori

Da Trentinowine

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Scommetto che se di lui scrivessi cose come vignaiolo eroico o viticoltore estremo, come si usa ora nei salotti del fighettume enoico, mi manderebbe in mona in due secondi. E non mi rivolgerebbe più la parola chissà per quanti anni. Quindi evito il gergo retorico e cerco di raccontare quello che ho visto. Senza togliere e senza aggiungere.

Paolo, Paolo Bazzè, è un contadino. E’ solo un contadino. Forse non gli piace nemmeno essere chiamato vignaiolo o viticoltore. Questo non lo so: un giorno magari glielo chiederò. É un contadino, figlio di contadini, che conferisce le sue uve alla Viticoltori in Avio, la cantinona sociale affiliata Cavit, che vale da sola il 10 % della produzione vinicola provinciale. Quando parla della sua uva, Paolo, parla semplicemente di frutta. E dice: “Penso che il mio compito, il mio lavoro, il mio dovere sia quello di portare in cantina della buona frutta. E se non è buona non la porto”. Punto.

E, tanto per farsi capire, aggiunge: “Ieri avrei dovuto vendemmiare il Traminer che coltivo nei campi del fondovalle. Mi sono rifiutato di vendemmiarlo e lo ho lasciato sulla vigna: non era un buon frutto”. E ancora, quasi per timore di essere frainteso: “Quando raccogli le mele, quelle marce, quelle difettate, le butti via. Mica le puoi vendere. Dovrebbe essere così anche per l’uva. Io la penso così”. Punto.

Sono andato a trovare Paolo a Piazzina, un minuscolo altopiano che rientra nel comune amministrativo di Ala di Trento. Una conca verde che domina la valle dell’Adige a 650 slm, più o meno all’altezza di Pilcante di Trento, sul versante destro del fiume. Ma per arrivarci, bisogna salire sino a Corné, borgo dell’Oltre Sorna, sulle pendici del Monte Baldo, oggi Parco Naturale; e poi bisogna percorrere ancora parecchi chilometri piuttosto accidentati, che ad un certo punto diventano sentiero in mezzo al bosco, sfiorando i ruderi di Castel Saiori, fortilizio distrutto già in epoca settecentesca. Tutt’intorno tracce delle fortificazioni risalenti alle eroiche e cruente battaglie irredentiste della Prima Guerra mondiale.

Beh, attraversato tutto questo ben di Dio paesaggistico, dove la civiltà dell’uomo di città è solo un vago ricordo, finalmente si arriva al Pinot Nero di Paolo. Un ettaro di filari. Più o meno. Piantati cinque anni fa, in mezzo a qualche scampolo di prato e ancora bosco e poi ancora bosco. E poi il silenzio. Silenzioso. Intorno solo il rumore degli animali selvatici. Al di sotto la valle dell’Adige, al di sopra la montagna che porta in alto verso il Baldo.

Una giusta esposizione al sole lungo tutte le ore di luce, il terreno asciutto, calcareo e lavico di questa montagna, l’aria sottile e fresca che spazza il cielo e ripulisce la terra. E il Pinot Nero dove prima la vigna non c’era mai stata, dove un tempo era solo pascolo e solo bosco. Poi l’intuizione contro corrente, e contro l’opinione di tutti, amici e colleghi viticoltori, dell’uomo nato contadino; così anche a Piazzina è arrivato il Pinot Nero.

Piccole rese, 50 / 60 quintali di frutta. E’ difficile immaginare qualcosa di più. Ci vuole del coraggio, e del fegato, per imbarcarsi in cose come queste: “Ma volevo provarci, volevo provare a coltivare l’uva lontano dal fondovalle. E un uva difficile come questa. Nella vita bisogna pur sognare e bisogna pur fare qualcosa che ti regali soddisfazione, che ti faccia sentire completamente contadino. E poi il Pinot Nero è il mio vino del cuore”.

La stagione non è stata una buona stagione, in questo 2014. Da nessuna parte, nel Nord Est. Anche a Piazzina, il Pinot Nero ha sofferto. Prima la devastante grandinata di giugno. Poi le piogge. E qualche attacco di peronospera che si è infilato sulla vegetazione, ma per fortuna non ha aggredito il frutto. I grappoli, l’altro giorno, erano bellissimi: compatti, scultorei, turgidi, marmorei. I grappoli di Pinot Nero sono così, quando sono buoni: una costruzione solida, come un’architettura perfetta e impenetrabile. Anche a Piazzina, anche quest’anno, sono così. L’uva, è vero, non è ancora matura, gli zuccheri hanno bisogno ancora di sole. Prevale un’acidità prorompente. Un po’ la stagione che non aiuta la maturazione, un po’ il carattere duro della montagna. Il contadino aspetta. Ma sono uno spettacolo questi grappoli compatti e scultorei. In questo luogo.

La piccola partita di Pinot Nero di Piazzina, in produzione da tre anni, è destinata alla spumantizzazione classica. Per la Sociale dei Viticoltori di Avio, è una novità. Hanno cominciato con le uve di Paolo. Le segue un giovane enologo della zona, si chiama Adriano Bertolini. Anche per lui, questo Pinot Nero e questo vino sono una sfida: “Ma quando il frutto è così buono, è così perfetto tutto diventa più facile, alla mano dell’uomo è richiesto poco. Ma davvero poco. Vale più l’intuizione, il gusto personale”.

Lo ho assaggiato, l’altro giorno, insieme a Paolo e ad Adriano, questo vino che diventerà un BRUT TRENTO DOC, forse una riserva. Ma che per il momento non ha ancora un nome. E’ una cuvée: metà Pinot Nero di Piazzina e metà Chardonnay della Valle dei Laghi, un’altra di quelle zone da dove arrivano uve per grandi bottiglie (come il Graal di Cavit). Un vino ancora sui lieviti, da un anno e mezzo. E sui lieviti ci resterà ancora per altrettanto tempo. L’uscita sul mercato è prevista per fine 2015. Poca roba: 3/4 mila bottiglie. Quindi quello che abbiamo assaggiato insieme è ancora un vino a metà strada.

Il colore è un rosa pallido e antico, quasi appena accennato. Il perlage, si sente in bocca, sembra molto fine e scattante. Il naso è ancora troppo di pane e di crosta, i lieviti del resto sono ancora nella bottiglia, ma vira verso l’arancia e l’agrume. In bocca si esprime subito con uno slancio scattante che persiste già lungo, segno della buona materia, magra ed essenziale, senza sbavature e ridondanze. Con un gradevole chiusura ammandorlata che fa pulizia, se di pulizia ce ne fosse bisogno. Mi è sembrato un vino che promette bene. Un rosè atipico rispetto allo stile panciuto dei Rosè trentini.

Intanto aspettiamo. Come aspetta Paolo, il contadino frutticoltore cooperativo, con il sogno di un grande vino negli occhi. E nel cuore. E con le mani sporche di uva. Senza retorica e senza enfasi. Come sanno esserlo solo i contadini. Quelli veri.


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