C’è chi lo ha sempre sostenuto, chi voleva prima vedergli vincere un titolo e chi continua ad essere cieco di fronte alla totalità del gioco di Lebron James; ora, dopo avere vinto un anello NBA da dominatore contro una squadra più attrezzata rispetto ai suoi malconci Heat, il Prescelto ha ufficialmente raggiunto l’Olimpo del basket.
Non verrà mai ricordato per la sua umiltà o simpatia (come per altro campionissimi come Jordan e Bird), ma senza alcun dubbio il figlio di Akron è un giocatore fuori dal mondo, anche in una Lega di super uomini com’è l’NBA. Un atleta con quel rapporto peso-potenza, abbinato ad impressionante atletismo, e ad una comprensione del gioco nettamente sopra la media, non si era mai visto. Lebron è qualche decennio avanti, come lo furono nelle loro epoche Pete Maravich, Julius Erving e Magic Johnson. Nelle Finals 2012 King James è stato primo assoluto per rimbalzi (51), assist (37), tiri liberi tentati (48) e realizzati (38); e secondo per punti (143) e recuperi (8), chiudendo la serie con 28.6 punti, 10.1 rimbalzi e 7.4 assist di media. Cifre mostruose, come la tripla-doppia di gara-5 (26, 11 rimbalzi e 13 assist) che non si vedeva in una partita decisiva per l’anello dall’ormai lontano 2003, quando Duncan vinse sia il premio di MVP della regular season, che quello delle Finals, l’ultimo a riuscirci prima di Lebron, ovviamente votato miglior giocatore.
Un passo fondamentale quanto decisivo quello di LBJ, che finalmente ha ritrovato il piacere di giocare, togliendosi quei sorrisi forzati dalla sceneggiatura, e concentrandosi su quello che per quanto sia un business, resta pur sempre un gioco. Lebron ha lavorato in estate, convincendosi di quanto può essere devastante avvicinandosi di più al canestro (il 37% dei tiri presi durante i playoffs 2012 sono arrivati nell’ultimo metro), giocando anche dal lato debole e ricevendo in movimento… insomma, giocando più a pallacanestro e meno a dimostrare quanto forte è. Percorso che più o meno tutti i grandissimi hanno dovuto fare, anche il più grande di tutti, Michael Jordan, arrivato al primo titolo a 28 anni, proprio come James.
Oltre ai miglioramenti in attacco, sono stati aspetti determinanti la difesa (non più selezionata per qualche azione ma estesa su tutti i 48 minuti) e l’atteggiamento mentale: basta “Hollywood”, niente Twitter, stop anche alle scenette coi compagni. Un solo obiettivo, l’anello! Più Kobe e meno Shaq per intenderci. Lo sguardo di Lebron per tutti i playoffs è stato quello di uno che aveva una missione da portare a termine. La missione per cui è nato, quella per cui è stato tanto criticato, quella per cui ha sofferto, e finalmente per cui ha gioito: vincere per diventare il più forte giocatore del mondo, ed ora, con un anello al dito, nessuno potrà più dire il contrario.