Magazine Cinema
The Knight (Rycerz) (1980)
The Flight of the Spruce Goose (Lot Świerkowej Gęsi) (1986)
The Prisoner of Rio (Więzień Rio) (1988)
The Gospel According to Harry (Ewangelia według Harry'ego) (1992)
The Roe's Room (Pokój Saren) (1998)
Wypadek (1998)
Wojaczek (aka Life Hurts) (1999)
Angelus (2001)
Ogród rozkoszy ziemskich (2003)
Glass Lips (2007)
I colori della passione (The Mill and the Cross) (2010) - 2,5/5
Maejwski (1953), polacco, è un videoartista (famosa una retrospettiva totale che il MOMA di New York gli dedicò nel 2006) che si è cimentato anche nella creazione di lungometraggi, non solo del ruolo di regista (ad esempio ha scritto Basquiat nel 1996).
-I colori della passione
Polonia/Svezia 2011 - sperimentale - 92min.
Il pittore fiammingo Peter Bruegel (Rutger Hauer) illustra all'amico Nicolaes Jonghelinck (Michael York) il dipinto che sta realizzando, La salita al Calvario (1564): una rappresentazione della crocifissione ambientata in un tipico paesaggio delle Fiandre, con i soldati spagnoli (all'epoca occupanti) al posto dei romani. Attraverso le parole di Bruegel il quadro si anima, e lo spettatore segue le vicende dei personaggi ivi rappresentati.
Il regista e videoartista Lech Majewski ha iniziato a lavorare a questo progetto dopo aver letto il libro The Mill and The Cross di Francis Gibson. Affascinato dalla descrizione che lo scrittore dava del quadro di Bruegel, Majewski ha progettato un film sperimentale che “conducesse” lo spettatore all'interno del quadro stesso, in un'opera di illustrazione/interpretazione della tela per mezzo di un film che raccontasse e/o descrivesse le vite dei personaggi in esso dipinti. Si assiste così ad una rappresentazione (tutt'altro che realistica) della vita dei contadini dell'epoca oppressi dall'occupazione spagnola: un eretico punito, una famiglia di mugnai, la gente semplice di un villaggio di campagna. Vi è inoltre la rappresentazione della via crucis trasposta in quei luoghi, con un Cristo dal volto inaccessibile ed una Madonna (Charlotte Rampling) dal volto doloroso e granitico.
Il film è stato realizzato in tre anni, con un complicato sistema di riprese dal vivo (in cui gli attori mimano le pose dei personaggi del quadro in stile tableaux vivant) su sfondi in blue screen cui sono state poi applicate immagini digitali del quadro in questione e di paesaggi filmati in vari paesi (Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Nuova Zelanda) anch'essi ritoccati a computer: il risultato è visivamente suggestivo, pare di vedere persone fisiche muoversi in uno spazio semi-dipinto e semi-realistico con un notevole effetto di disorientamento, ma anche con un'inedita resa estetica.
E' una riflessione sulla religione e sulla vita, un'interrogazione sulla potenza dell'arte e la ricerca di una salvazione ultraterrena, in cui l'opera d'arte è vista come collegamento fra l'uomo e Dio, ed in cui si respira un'aria di sacralità e misticismo che è difficile spiegare a parole. Nell'officiare questo rituale artistico-religioso, il regista si lascia trasportare da una specie di flusso di coscienza, dando vita a sua volta ad una serie di brevi “quadri”, parentesi descrittive che preferiscono l'illustrazione alla narrazione, anche se poi tutte le micro-situazioni rappresentate convergono nel topos collettivo della processione al Calvario, momento di congiunzione tra l'umanità e la divinità che per essa si immola.
In questo cortocircuito metafisico Majewski coglie l'occasione per regalare allo spettatore scorci mai visti prima al cinema, che tuttavia attingono alla tradizione pittorica, con prestiti da varie scuole ed epoche (analisi in cui non mi cimento data la mia scarsa attitudine alla storia dell'arte suddetta, anche se mi permetto di segnalare qualche probabile ricorso a Vermeer nelle rappresentazioni di interni).
La recitazione è stilizzata, i dialoghi sono ridotti al minimo e spesso le emozioni sono rappresentate per mezzo di linguaggio non verbale (posture, gemiti, espressioni), il che richiede una mimica non indifferente, cui il cast si dimostra adeguato. La colonna sonora è quasi del tutto assente, eccettuato un paio di pezzi corali nei momenti più intensi, in generale però è stato fatto un interessante lavoro di sound design che riesce, tramite scricchiolii, vento, passi, cavalcate, lamentazioni, a suscitare una sorta di ansia metafisica.
Se dal punto di vista dell'originalità questo film può considerarsi unico, rimangono delle perplessità: il regista sembra così assorbito dalla sua contemplazione da dimenticarsi dello spettatore rischiando così di far apparire I colori della passione un puro autocompiacimento estetico, permeato di un ermetismo che esclude piuttosto che comprendere; personalmente mi sono trovato a confrontarmi con una visione talmente personale dell'autore da non essere in grado di immergermi nell'opera dotandola di interpretazioni e rielaborazioni mie, cosicché il tutto si è ridotto ad uno spettacolo visivo-sonoro che pur affascinante mi è parso un dialogo fra il regista ed il suo Dio. Sembra insomma la messinscena di visioni talmente private, talmente intime, da non potervisi rispecchiare in alcun modo, ma anzi da esserne quasi respinti.
In definitiva è una celebrazione solipsistica di una visione filosofica del mondo e della vita che non lascia spazio a contributi spettatoriali, e perciò risulta scostante più che invitante. Se si aggiunge poi l'ostacolo più banale (ma non per questo meno importante) della lentezza del ritmo contemplativo, della censura del dialogismo e di una conclusione non particolarmente soddisfacente (ma questa è opinione personale), il giudizio finale non può, a malincuore, raggiungere la soglia di sufficienza necessaria a consigliarne la visione. Tuttavia, se voleste provare l'esperienza, un qualche tipo di fascinazione audio-visiva è pressoché garantita.
Voto: 2,5/5
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