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Nella migliore delle ipotesi è una narratore con cognizione di causa; nella peggiore, la più comune, è solo un fanatico che usa la prima persona del verbo. Adopera frequentemente inglesismi (e italianismi, perché no?) bizzarri e frasi fatte da critico; è un cultore di beat generation, Lester Bangs e Charles Bukowski; non rinuncia a parole o espressioni volgari e tratta spesso del proprio vissuto piuttosto che dell’album in questione; risulta sempre scettico, cinico e disincantato riguardo al carrozzone della musica rock, di cui per altro fa immancabilmente parte.
Queste redazioni virtuali non sono certo quelle di una volta; almeno dieci anni fa qualcuno mi attaccava un post-it minuscolo sullo schermo: “G.B. serve pezzo P.I.L. x venerdi 12!”. Dodici; venerdì sarebbe stato il 14, ma comunque… Ora invece arriva la mail! Inchinatevi oh voi sottoredattori pulciosi alle parole del grande capo! Rigorosamente via mail. Elenco pezzi disponibili, poche pippe e rispondere in fretta (fretta: cioè smettetela di farvi le seghe, chiudete Youporn e ditemi i pezzi che volete). Ma per fortuna per me non funziona così; che culo essere una penna ricercata! G.B. si cucca il quarantesimo anniversario di Zoso, eccheccazzo! Mamma mia! E non tanto per la settima recensione che scriverò su questo disco in 27 anni di carriera. Quarantesimo anniversario. Certo che il tempo scappa veloce. Non ricordo esattamente quando comprai l’album, anzi non ricordo esattamente nemmeno quanti ne abbia comprati di L.Z. IV: un paio di vinili (di cui uno è una bella english press), poi la cassetta, un CD che ho prestato a Joe Marozzi nel ’92 (e mai me l’ha ridato, l’infame…). Lo confesso: mi esce dalle orecchie. Ma facciamo pure ‘sto pezzo. Da dove si parte a scrivere di Zoso? Tutti hanno già detto tutto. E allora non resta che ribadire l’ovvio. Si parte da una considerazione banale: questo è un grande platter; e Stairway to Heaven è un gran pezzo. Mi sarei anche stancato di sentire certi damerini ultracool, iperalternativi, che giocano al piccolo cinico gettando da anni merda su ogni disco uscito prima del ‘76. Ok, ci siamo ascoltati tutto il punk di questo mondo, abbiamo sopportato Johnny Rotten, Anarchy in Inghilterra e perfino Sid Vicious; ci siamo vestiti come Joey Ramone, abbiamo goduto come mandrilli per ogni rumorosa cazzata post punk. Adesso basta. Basta revisionismi radical-chic del cazzo. Altrimenti la prossima volta che mi fanno scrivere di Sticky Fingers andrà a finire che dovrò sostenere che l’olocausto non è mai esistito e che Richards non si faceva di eroina. E’ roba per cui si va in galera! Quindi, stop con le pose originali-indie-alternative: Stairway è una signora canzone! Bene, detto questo sfogatevi pure su quel testo balordo (il più sopravalutato di sempre, s-e-m-p-r-e!) ma non andate oltre, perché ormai anche Johnny Rotten è roba da museo. E non c’è bisogno di travestirsi da panda del WWF per la raccolta fondi in favore dei preraffaelliti sul dirigibile più famoso d’Inghilterra. Badate bene: quelli sono veramente capaci di pisciarvi in testa e farvi credere che è acquerugiola di dolce primavera precoce. Quale altro gruppo riuscirebbe a farvi credere che Four Sticks è una genialata? Quali altri quattro bastardi metterebbero mai assieme cocci vecchi di vent’anni per farci Rock n’ Roll? E tutti a gridare al miracolo: “…canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry!” Wow! Non mi dire. Addirittura c’è ancora chi pensa che le visioni da fotoromanzo di Artù e Ginevra in Battle… siano autentiche concezioni culturali! Let me say: questi vi fregano! Lo hanno sempre fatto da quando hanno rubato Dazed and Confused a quello sfigato di Jake Holmes. Vi hanno sempre fregato, ma volete sapere una cosa? Lo hanno fatto con una grande classe! Ve lo hanno messo di dietro eppure vi hanno fatto godere. Mai provata quella sensazione? Bè ci si rimane male, aftermath. Ma mentre ascoltate quel drumming, quella cazzo di chitarra, quel pennellone tutto capelli che canta come una checca in calore: mentre ascoltate tutto questo, allora pregherete per averne ancora. Di più, datemi tutti i centimetri del vostro amore, bastardi! E non ve ne fregherà niente se è paglia o oro, perche i Led Zeppelin possono tramutare l’una nell’altro come nessun ha mai saputo fare. Ma se volete un consiglio dal vecchio G.B. andatevi ad ascoltare due pezzi, solo due. Il cane nero: perché quelle chitarre sono veramente selvagge e non sfigurerebbero a Detroit. Poi When the Levee Breaks perché, occhio, è il migliore tra tutti i blues travisati nei secoli dagli Zeppelin; è la travisazione somma, la più fantasiosa, la più approfondita, senza paccottiglia psichedelica di contorno: solo stupore, casino e strafottenza ritmica. E’ anche l’ultimo grande blues di un gruppo destinato a sprofondare con Houses of the Holy da lì ad un paio d’anni. Visto? Vi hanno fottuto ancora, ma lo hanno fatto alla grande!
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