Nel corso di questa fase di rinascita di un genere sempre costante nella sua altalenanza, si fanno notare i Left In Ruins, che da Trento qualcosa da dire ce l’hanno ancora (e ad alta voce), suonando in tutta Italia, dove penso non esista più un locale che non li abbia visti all’opera, ma anche all’estero, e ottenendo tra l’altro un buon seguito.
Ghost è un punto di arrivo: il disco di una band matura e padrona dei propri mezzi. Fin dalla title-track si è come presi a pugni e spinti nella mischia dalla grinta dei Left In Ruins, che non si stempera mai nel corso dei quattordici minuti dell’album. Le canzoni, infatti, raramente superano il minuto e mezzo, che è il tempo giusto per non rendersi conto di cosa stia succedendo. La loro durata permette anche di farle avanzare in modo strutturato, basta ascoltare le linee di chitarra in “Last Dose”, la più lunga delle dieci, con successivo breakdown. Non mancano però anche pezzi classici come “Wasted Generation”, che è un vero totem hardcore punk: veloce, sempre più veloce. Spesso, comunque, ci si imbatte in dei rallentamenti che favoriscono un mosh un po’ più pesante sotto al palco, non a caso il gruppo è bravo anche dal vivo. Divertente, infine, la cover dei Jefferson Airplane “Somebody To Love”, per chi ancora non l’avesse sentita in salsa hc. Ghost si può mettere su decine di volte consecutive senza stancarsi, inoltre – cosa a me assai cara – fa venire voglia di andare a un concerto dei Left In Ruins, il che è una garanzia.
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