Si è già parlato, in questi stesse pagine (vedi qui), del controverso Decreto Bankitalia, alias D.l. n. 133/2013, appena tramutato in legge con alcune modifiche nella Legge 29 gennaio 2014, n. 5. Visti però gli accadimenti delle ultime ore non è inutile ritornarvi sopra, anche perché taluni organi (vedi Corriere della Sera) stanno dando spiegazioni molto edulcorate del provvedimento, sostanzialmente presentato come un mero esercizio di finanza creativa che cambia qualche numero a bilancio ma non costa nulla all’erario pubblico, anzi lo fa guadagnare.
La novità basilare introdotta dalla legge è che il capitale della Banca d’Italia passa da € 156.000, suddiviso in 300.000 quote dal valore di € 0,52, a € 7.500.000.000, suddiviso in 300.000 quote da € 25.000. Questo induce subito a porsi due domande: a) come avviene l’aumento di capitale?; b) chi detiene le quote?
L’aumento di capitale è finanziato tramite le riserve statutarie della Banca stessa. Tali riserve statutarie ammontano oggi a circa 23 miliardi di euro. È implicito dalla stima compiuta dai tre esperti nominati dalla Banca d’Italia per valutare sé stessa che, se l’ente è stimato a 7,5 miliardi, le riserve statutarie siano riconosciute come proprietà pubblica, al pari delle riserve auree e valutarie. Dunque, il processo di ricapitalizzazione vedrà passare poco meno di 7,5 miliardi da riserve di proprietà pubblica al capitale della Banca d’Italia. Che è sì di diritto pubblico (almeno finché non si completerà il progetto dichiarato dal Ministro Saccomanni di renderla una public company, che a dispetto del nome è di diritto privato), ma di proprietà privata.
Infatti, quando nel 1936 la Banca d’Italia fu costituita a soggetto di diritto pubblico, le quote furono distribuite a banche e assicurazioni di proprietà e diritto pubblici. Nel 1990, però, su iniziativa di Giuliano Amato tali banche sono state privatizzate. O qualcosa del genere. Sì, perché il processo di privatizzazione è passato per la creazione di un istituto ibrido pubblico-privato tutto italiano, quello delle “fondazioni bancarie”. È passato, e di lì si è fermato. Gli economisti de “La Voce”, esattamente un anno fa, hanno condotto un’interessante inchiesta sulle fondazioni bancarie, scoprendo che i politici occupano quote considerevoli degli scranni dei consigli d’amministrazione: ad esempio, il 60% in Monte dei Paschi di Siena, il 50% in Cassamarca, il 55% in Cariplo eccetera. Spesso la presenza nel CdA di una fondazione è preludio all’ingresso in quello della banca medesima.
Fatta questa doverosa precisazione, torniamo alla Banca d’Italia. Le 300.000 quote proprietarie sono suddivise fra 60 soggetti. Ci sono INPS e INAIL, rispettivamente col 5% e lo 0,67%, il resto sono soggetti privati. A dire il vero, questi soggetti già iscrivevano a bilancio valori delle loro quote più alti del € 0,52 nominale (vedi qui), ma in ogni caso la ricapitalizzazione permetterà loro di rafforzare i rispettivi bilanci. Le plusvalenze saranno tassate con un sostituto d’imposta del 12%, quindi lo Stato incasserà una tantum circa 900 milioni. È vero che 7,5 miliardi si spostano dalle riserve statutarie al capitale, ma essendo l’attività della Banca d’Italia fortemente vincolata, non entrano nelle disponibilità dell’azionariato. Almeno finché Saccomanni o chi per lui la convertirà in public company di diritto privato.
Quel capitale iscritto alla nuova cifra di 7,5 miliardi dei problemi andrà però a crearli.
Il primo concerne i dividendi. Da Statuto, essi non possono eccedere il 6% del capitale. Ciò significa che prima il limite era 9.360 euro; anche se la possibilità di aggiungere un ulteriore 4% sul capitale più un 4% sull’importo delle riserve ha permesso di distribuire, negli ultimi anni, dividendi per una media di 46,5 milioni l’anno. Ora il limite sale a 450 milioni l’anno. Questi dividendi quasi decuplicati saranno detratti dall’utile netto. E siccome l’utile netto va per il 20% nella riserva (pubblica) e per il 60-80% (dipende da eventuali fondi straordinari) all’erario, è evidentemente lo Stato a dover pagare questi dividendi extra. L’extra-gettito una tantum dei 900 milioni che le banche verseranno come sostituto d’imposta, potrebbe essere annullato dalle mancate entrate in soli due anni, e dal terzo in poi lo Stato si ritroverà costantemente con 450 milioni l’anno in meno (da recuperare o con tasse o con tagli alla spesa).
I lettori più accorti avranno però notato che quel 6% è un limite massimo: dunque i dividendi potrebbero essere inferiori. Lo saranno?
Per capirlo dobbiamo fare riferimento ancora a quanto stabilisce la nuova legge, ossia che nessun soggetto potrà detenere più del 3% (era 5% nel decreto originale) delle quote della Banca d’Italia. Coloro che oggi sforano tale limite sono sei soggetti: Intesa San Paolo (30,35%), Unicredit (22,11%), Generali (6,33%), Cassa di Risparmio di Bologna (6,2%), INPS (5%) e Carige (3,95%). Questi sei azionisti hanno due soli modi per sbarazzarsi delle quote in eccesso: venderle sul mercato oppure alla Banca d’Italia. I soggetti autorizzati a entrare nel capitale (e dunque i possibili acquirenti) sono banche e assicurazioni con sede legale e amministrativa in Italia, fondazioni bancarie con patrimonio di almeno 50 miliardi, enti di previdenza e assicurazione italiani, fondi pensione registrati in Italia.
Ovviamente, la possibilità che tali soggetti vogliano acquistare delle quote (sempre nel limite massimo del 3%) dipende dalla redditività dell’investimento, e dunque dai dividendi.
Tanto più la Banca d’Italia terrà bassi i dividendi per far guadagnare di più allo Stato, tanto meno i sei soggetti di cui sopra troveranno acquirenti disposti a spendere il valore nominale delle quote. Secondo la nuova legge, la Banca può dunque acquistare temporaneamente queste quote in eccesso; ma qualora i sei soggetti non trovassero acquirenti, pare proprio che quella possibilità diverrà una necessità. Acquistando le quote al valore nominale, la Banca d’Italia si troverà a spendere fino a 4,19 miliardi di euro, che necessariamente dovrà sottrarre all’utile (dunque allo Stato) oppure ricavare dalla riserva (pubblica). È vero che recupererà una parte della spesa rivendendo tali quote, ma evidentemente andrà in perdita: perché se i sei soggetti avranno venduto alla Banca, significherà che il valore di mercato delle quote è inferiore a quello nominale. A meno di risollevarlo aumentando i dividendi e dunque sottraendo entrate allo Stato. Insomma: nell’un caso e nell’altro si andrà in perdita; si tratterà solo di scegliere se perdere tanto in una volta, o poco ma per molto tempo. L’alternativa sarebbe stata riacquistare le quote prima della rivalutazione, quando sarebbero costate meno di 90.000 euro. Ma evidentemente quest’ipotesi non è stata valutata, o scartata per qualche motivo.
Ultima questione. Non è un’ipotesi peregrina che lo Stato possa, in un futuro prossimo o remoto, decidere di riacquistare tutta la Banca d’Italia. È vero che la FED statunitense è privata (ma con minore indipendenza rispetto al potere politico), ma la maggior parte delle banche centrali del mondo sono pubbliche, così come era pubblica la nostra fino a un quarto di secolo fa. Oggi Saccomanni vagheggia di privatizzarla come public company, qualche suo successore potrebbe al contrario volerla rinazionalizzare. Diventerebbe una necessità qualora, per scelta o costrizione, l’Italia un giorno abbandonasse l’euro e tornasse alla lira. Ciò che poche settimane fa sarebbe costato 156.000 euro, da oggi costerebbe 7,5 miliardi.