Chiunque si sia cimentato, almeno una volta nella vita, con l’arte della scrittura, avrà fatto un pensiero del tipo “vorrei essere capace di scrivere come lui”, pensando a un autore in particolare, che magari non è neppure il nostro autore preferito, quello di cui abbiamo divorati tutti i libri, ma che ad ogni modo è stato capace di attirarci col suo stile, con l’abilità, con l’intelligenza. Tutti abbiamo uno scrittore così. Il mio è Harold Brodkey. Ci ho messo tanto a scoprirlo; potrei confessare che l’ho scoperto solo un paio di settimane fa. Brodkey è un autore del secolo scorso, Harold Bloom l’ha definito il “Proust d’America”, un Proust che ha avuto tanta meno fortuna. Se dovessi usare un aggettivo per definire la sua scrittura userei l’aggettivo “densa”. La sua scrittura è densa, ogni parola ha un contenuto emotivo, entra in rapporto con il tempo e la memoria, con la nostalgia, il rimpianto, il ricordo. Se dovessi accostarlo a un altro scrittore americano farei il nome di Henry Roth, l’autore di quel mirabile capolavoro che è Chiamalo sonno. Io ho letto i racconti di Primo amore e altri affanni (Fandango), una raccolta che risale al 1958. L’incipit del primo racconto è di quelli che non si scordano: “Esiste una particolare gradazione di mattoni rossi – un rosso cupo, quasi melodioso, profondo e venato di blu – che è la mia infanzia a St. Louis. Non l’infanzia vera: ma quella finta, che si estende dal primo albeggiare della consapevolezza fino al giorno in cui si lascia la casa per entrare all’Università”. Leggere Brodkey è come fare un viaggio che inizia da un territorio chiaro, illuminato dalla luce azzurra della memoria, e che va verso qualcosa di misterioso, qualcosa che si può esprimere solo attraverso la lingua arcana della letteratura.
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