La possibilità di intervistare l'autore dell'ultimo libro che hai letto non capita tutti i giorni, e non potevo farmela sfuggire. Il libro in questione è L'Uomo Nero, che è anche il primo romanzo giallo ad aver mai alloggiato sul comodino accanto al mio letto: ci è rimasto poco lì sopra, non più di due notti, durante quelle poche fisiologiche pause tra una pagina e l'altra.
Il merito di una lettura conclusasi così in fretta non stava nell'esiguità del racconto, che anzi superava quota 300 pagine, ma nella bravura del suo autore, capace di estrarre dai sotterranei dell'Urbe un thriller avvincente e dall'esito imprevedibile. Un registro accessibile nella sua ricercatezza ed uno stile fluido e mai autoreferenziale rendono scorrevole ogni momento della narrazione: i capitoli, brevi, con i loro continui cambi di scena, volano via uno dopo l'altro come un sacchetto di caramelle tra le mani di un bambino.Il titolo, semplice nella sua infantile reminiscenza, è forse l'unico trascurabile difetto dell'ultimo lavoro di Luigi Sorrenti che, come forse avrete intuito, è una vecchia conoscenza di chi vi scrive.Due vecchie conoscenze che qualche giorno fa si sono incontrate per fare due chiacchiere.Usiamo il "tu" o il "lei"?Questo devi deciderlo tu.Messaggio recepito. L'Uomo Nero è la tua seconda fatica letteraria giunta diversi anni dopo il debutto conZeus e la Luna: dove è nata l'ispirazione per questo libro e quali sensazioni accompagnano il tuo ritorno editoriale?Zeus e la Lunanon ebbe alcun tipo di successo per molti motivi, non ultimo perché probabilmente in quel libro non credevo neanche io. Infatti non feci la minima pubblicità all'opera. Però è stato un momento importante per me, di crescita e di comprensione. Ho continuato a scrivere nel corso degli anni più per me stesso che per gli altri, senza velleità editoriali, finché non è arrivato L'Uomo Nero. Il libro ha avuto una stranissima gestazione, essendo infatti nato come un romanzo su "commissione": un caro amico, proprietario di una casa editrice in cattive acque mi ha chiesto di realizzare un romanzo breve da pubblicare con lui, nel tentativo di risollevare le sue finanze. Da tempo mi affascinava l'idea di un romanzo ambientato a Roma, in cui a far da asse portante della trama fosse una specie di inquietante contrasto fra lo splendore della città ed il male che alberga nel sottosuolo. Così iniziai a buttar giù una prima bozza di quello che poi è diventato L'Uomo Nero. Nonostante nel frattempo questa piccola casa editrice abbia chiuso, ho deciso di continuare nella stesura del libro, quello che inizialmente doveva essere un classico giallo si è trasformato in qualcosa di diverso, un noir con evidenti venature della narrativa gotica; l'ho portato a termine, trasformandolo poco alla volta da romanzo breve in un vero e proprio libro.Cosa ti ha colpito del sottosuolo dell'Urbe a tal punto da farne l'ambientazione di molti degli omicidi commessi dall'Uomo Nero?La metropolitana di Roma è un luogo che frequento quotidianamente, abitando e lavorando nei pressi della Linea B. In metro s’incontrano tante persone, volti sconosciuti, ma che poco alla volta possono diventare familiari. Mi sono sempre divertito ad osservare queste persone, immaginare da dove vengono, dove vanno, cosa pensano, se sono felici, tristi, serene, stanche, quali fardelli si portano dietro: le loro vite insomma. La metro è un luogo a volte triste e desolante, altre volte affascinante, che ben si presta a mio parere a far da sfondo agli efferati crimini di uno psicopatico. Ambientare il libro lungo le linee della metropolitana aveva però anche un altro significato. I cunicoli che si diramano nel sottosuolo di Roma, simboleggiano quello che è il sottobosco della città, un sottobosco oscuro, misterioso, fatto da oltre duemila anni di intrighi e complotti. Basti pensare ad esempio alle origini della città, la sua fondazione avvenuta con un omicidio e poi, con il passare dei secoli, ci imbattiamo nelle pugnalate di Cesare, in Nerone, Caligola, la riforma protestante, fino ad arrivare alla Roma barocca e papalina, quella ricca e corrotta, e – dulcis in fundo – alla Roma dei giorni nostri.La lunga storia e le antiche tradizioni di questa città sono un'eredità troppo pesante per la Roma di oggi?Un’eredità pesantissima per qualunque città, un’eredità che Roma affronta spesso con scarsa consapevolezza del suo passato e della sua gloria, se non in maniera molto superficiale. Larga parte della popolazione romana, soprattutto le nuovissime generazioni, ignora completamente il passato della città, le sue grandezze, i suoi splendori, ma anche le sue miserie, limitandosi spesso a conoscere – e per di più superficialmente – la Roma imperiale, quella che ruotava attorno al Colosseo, la Roma dei gladiatori, in una visione distorta e iconografica, propugnataci da decine di colossal hollywoodiani.L'intero racconto si svolge a Roma, città che non solo tratteggi nei suoi dettagli topografici, ma nella quale ti avventuri anche in un'analisi psicologica e sociale che coinvolge sia la cittadinanza che lo stesso tessuto urbano: perché proprio la Capitale e quale rilevanza assume questa caratterizzazione ai fini del racconto?Roma si prestava bene a fare da sfondo ad un romanzo che tratta certe tematiche per una serie di motivazioni: la dicotomia fra bene e male che si respira in città ne è solo una parte. Nel libro assume una certa valenza il ruolo svolto dalla stampa nell'alimentare la psicosi collettiva: Roma ha una centralità da un punto di vista politico e sociale in Italia che ne fa una cassa di risonanza per quelle che poi sono le paure e le psicosi di un' intera nazione. Un fatto di cronaca che avviene a Roma assume sempre connotazioni particolari, diverse: si sa dove inizia e non si dove si va a finire. Perché puntualmente intervengono i vari poteri che hanno sede in città, il potere politico, quello religioso, spesso i servizi deviati e tutto viene ingigantito da quell'accanimento mediatico che trova terreno fertile nel tessuto sociale della città. E di esempi ne abbiamo in abbondanza anche solo rimanendo alla cronaca recente locale romana e nazionale.
Lo stesso titolo del libro è anche il nome con il quale i mass media identificano nel corso della storia l'ignoto serial killer, ricordando per certi versi le maratone mediatiche degli ultimi mesi per le vicende di Avetrana e Bembrate di Sotto: dove finisce la notizia di cronaca e dove inizia lo spettacolo della caccia al mostro?Il confine è labile, è come chiedersi dove finisca il diritto di cronaca e dove inizi quello che è un vero e proprio sciacallaggio mediatico. Si potrebbe rispondere che il confine dovrebbe essere dettato dal buon senso e dal buon giusto, ma quando c'è la corsa alla notizia, quando inizia una vera e propria sfida per gli indici di ascolto e per le tirature dei giornali, il buon senso e il buon gusto vengono molto spesso messi da parte. Non è una cosa dei giorni nostri: un triste punto di partenza fu segnato con la storia di Alfredino Rampi a Vermicino nel 1981, forse il primo caso trasmesso a lungo in televisione che ha tenuto incollati milioni di persone davanti alle TV per seguirne lo svolgimento: è stato un punto di svolta, la scoperta che si potevano fare ascolti cavalcando una tragedia. Da allora è stata una discesa continua verso ciò che Giorgio Gaber chiamava cannibalismo mediatico, arrivando a definire i giornalisti"cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti e si direbbe proprio compiaciuti"e concludendo con "si buttano sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano".Nel profilo che hai tracciato di Roma e dei suoi abitanti, la città diventa uno specchio dell'Italia nel suo complesso oppure assume una connotazione esclusiva?
Roma è un po' lo specchio dell'Italia, anzi, Roma è l'Italia, un'Italia all'ennesima potenza: i difetti del Paese a Roma sono più accentuati, così come anche i suoi pregi. Allo stesso modo la popolazione romana non è altro che la popolazione italiana in cui pregi e difetti sono estremizzati.Un episodio del romanzo che vede protagonisti Roma e i suoi cittadini è il linciaggio di un extracomunitario accusato di essere il colpevole dei delitti che destabilizzano la città: qual è oggi il rapporto dei romani con gli stranieri?Un rapporto non dissimile da quello di altre grandi città, soprattutto del nord, come Milano o Torino. Un rapporto che si basa sul contatto stretto fra persone diverse per cultura o per tradizione, da cui spesso scaturisce l'incomprensione, il rifiuto, o che finisce per sfociare nella sopportazione e finanche nel rancore. Alla base di tutto, però, c'è un forte pregiudizio che noi come popolo ci portiamo dietro nei confronti dello straniero o più in generale del diverso.Suggestivi ed enigmatici sono i riferimenti alla religione cattoliche in alcune pagine, forse doverosi in uno scenario così legato alla cristianità ma per nulla scontati: quale rilevanza assume la religiosità nel corso della storia?La storia si apre il giorno di Natale e si conclude il giorno di Pasqua: il lasso temporale è dunque compreso fra la nascita e la morte e la successiva resurrezione di Cristo; alcuni nomi dei protagonisti hanno chiari riferimenti religiosi e la parte conclusiva si svolge in piena veglia pasquale. A pochi metri di distanza si verificano due eventi di natura opposta: da un lato la veglia che rappresenta la vittoria del bene sul male, quindi della vita sulla morte, la vita oltre la vita; dall'altro l'ultimo delitto dell'Uomo Nero, la morte, la fine di un'esistenza. Questo contrasto fra bene e male (già usato ampiamente nella letteratura e nel cinema, basti pensare alla scena finale deIl Padrino) simboleggia il modo in cui Roma vive la presenza del Vaticano: una presenza che ha portato lustro a tutta la città, non solo dal punto di vista spirituale ma anche culturale e artistico, ma anche una presenza ingombrante e spesso invasiva sulla società e sulla vita politica del paese e della nazione.Il Vaticano oggi ha davvero tutta questa influenza sulla società italiana?Vorrebbe averla, e in fin dei conti ce l'ha ancora. Il vaticano politicamente in Italia sposta ancora una buona quantità di voti: di conseguenza ha una forte influenza su quella che è la vita politica e quindi sociale del Paese.Nonostante ciò, diventa sempre più evidente la distanza tra una morale condivisa, non per forza cattolica, e la condotta dei nostri rappresentanti, non solo nel proprio ambito privato: dobbiamo definitivamente abbandonare l'aspirazione ad una classe dirigente che faccia da esempio per i cittadini?Purtroppo ritengo che la classe dirigente sia lo specchio della nostra società. Sarò pessimista o disfattista, ma i valori che la nostra società prende come riferimento ed offre sono quelli che sono: il potere, il successo, il denaro, e qualsiasi mezzo è lecito per arrivarci. I rappresentanti politici, la classe dirigente, coloro che ci rappresentano all'estero, bene o male entro certi limiti li scegliamo noi: sono il nostro specchio, lo specchio di una società che legge poco, che inebetisce davanti alla TV, in cui non vige nessuna forma di meritocrazia e dove spesso ha la meglio il più furbo. Una classe dirigente che sia d'esempio è oggi un'utopia: a meno di un completo e radicale cambiamento, non soltanto politico ma che riguardi l'intero tessuto sociale.Si mangia con la cultura?Ovviamente no, chi ci riesce è particolarmente bravo e fortunato ma parliamo di una percentuale davvero minima. La cultura non nutrirà il corpo, ma nutre senz'altro lo spirito. E forse è più importante.Le parole del Ministro dell'Economia ("Fatevi un panino con la Divina Commedia") sono sembrate denigratorie a tal proposito, mentre il Dicastero dei Beni Culturali si sta distinguendo come uno dei peggiori dai tempi dell'Unità d'Italia: c'è qualcosa che non va nella concezione delle arti e della cultura nel nostro Paese o nel nostro governo?Dare una definizione di cultura non è mai facile, ma in qualunque modo la si intenda questa gioca un ruolo fondamentale in una società. La cultura arricchisce ma non riempie le tasche: è un freno alla volgarità dilagante, aiuta a distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male. È uno strumento fondamentale per giudicare chi ci governa, è un riscatto dalla povertà. Da sempre i regimi totalitari rinnegano la cultura e bruciano i libri: perché dalla consapevolezza, dalla cultura, nasce la rivolta.
Ora in Italia ovviamente non siamo a questo livello, anche se sembra che ce la si stia mettendo tutta per arrivarci, e ritengo che i problemi in materia siano atavici e non riguardino esclusivamente questo governo o questo ministero dei beni culturali.
Sicuramente c’è qualcosa che non va se diamo così scarso peso a quest’aspetto che è e rimarrà sempre fondamentale per la vita di un uomo. Siamo un Paese che ha vissuto per secoli di arte e di letteratura, siamo il Paese della cultura per antonomasia, ed oggi è come se avessimo una specie di rigetto o pensassimo che possa bastare la nostra storia per non inaridirci. Purtroppo non è così.
L'Uomo Neroè un giallo noir: al di là della letteratura di genere, c'è qualche autore dal quale hai tratto ispirazione durante la sua stesura?Non c'è un autore a cui mi ispiro, ritengo che ognuno debba scrivere com'è capace di farlo, senza tentare di imitare nessuno: ognuno ha il suo stile.E allora quali sono i tuoi scrittori preferiti?Bella domanda. Difficile fare una lista: per fare un paio di nomi, adoro Hemingway e Bukowski. Tra gli italiani, invece, mi piace molto De Luca.I libri che ti hanno catturato di più?Il vecchio e il mare per me é il libro perfetto, quello cui ogni scrittore dovrebbe tendere. Un libro breve, secco, asciutto, che riesce a tenerti ancorato alla lettura anche se l'autore parla del nulla: questa per me è l'apoteosi della scrittura, un concetto un po' perverso ma è la vera grandezza dello scrivere. Poi On the road di Kerouac, Il giovane Holden di Salinger, Chiedi alla polvere di Fante, molto di Bukowski. C'è un racconto di quest'ultimo che per me è stato un punto di svolta, si chiama La mia pazzia. Parla di una tigre sulla sua schiena del vecchio Charles, che lo obbliga a scrivere ininterrottamente, perché solo così può nutrirla, darle battaglia, ma mai sconfiggerla, perché la tigre chiederà sempre di più e non sarà mai abbastanza sazia delle sue parole. Solo grazie a questa tigre sanguinaria e battagliera, lo scrittore – ma più in generale l’artista – può crescere e migliorare. Un po’ la stessa cosa che diceva Hendrix a proposito del fuoco che ardeva dentro di lui e che lo costringeva a comporre sempre nuove note e nuove melodie. La tigre e il fuoco sono due facce della stessa medaglia ed alla fine se ci pensiamo bene è ciò che diceva anche Nietzsche: “Bisogna avere il caos dentro per partorire una stella che danzi”. Ma non vorrei divagare, tornando a Bukowski, il suo racconto, termina così: “E se fra voi c'è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va' avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all'azzardo, e alle risate. Regalateglieli”. Beh, io ci ho provato!