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"Lei" di Spike Jonze e l’umanesimo ai tempi dell’intelligenza artificiale
Creato il 19 settembre 2014 da Luca OttocentoAlle origini di Lei: I’m Here e Mourir auprès de toi
L’idea alla base di Lei deve essere maturata in Spike Jonze nel corso degli ultimi anni, come naturale conseguenza del percorso recentemente intrapreso con la realizzazione di due cortometraggi poco noti, assai diversi tra loro per minutaggio, stile e ambizione, ma connessi sul piano tematico: I’m Here (2010) e Mourir auprès de toi (2011), quest’ultimo diretto con Simon Cahn, regista francese perlopiù di video pubblicitari e musicali. I’m Here è ambientato a Los Angeles in un futuro prossimo che ha tutte le caratteristiche del nostro tempo, a eccezione del fatto che esseri umani e robot condividono lo stesso spazio metropolitano.
Ispirato nello sviluppo drammaturgico al libro illustrato per bambini The Giving Tree (tradotto in italiano con il titolo L’albero) di Shel Silverstein, l’intenso e visivamente raffinato cortometraggio racconta in trenta minuti una love story tra due robot. Sheldon, un automa dall’aspetto maschile, vede cambiare improvvisamente la propria monotona vita quando incontra Francesca, un vivace robot dalle sembianze femminili cui esprime un amore incondizionato privandosi gradualmente di quasi tutte le componenti del corpo meccanico, al fine di sostituire le numerose parti danneggiate del partner.
Mourir auprès de toi, invece, si concentra su una serie di figure disegnate sulle copertine di alcune versioni illustrate di celebri testi che, alla chiusura di una libreria parigina, prendono vita e interagiscono tra loro
In questo delizioso divertissement d’animazione in stop motion di sei minuti, che tra l’altro conferma ancora una volta l’interesse di Jonze per la forma del libro illustrato (si pensi anche a Nel paese delle creature selvagge del 2009), l’intreccio è molto semplice: si seguono le molteplici disavventure di uno scheletro emancipatosi dal Machbet di Shakespeare che riesce a conquistare un’avvenente donna, animatasi dal Dracula di Stoker, solo dopo essere stato decapitato dalle lancette de Il grande orologio di Fearing, sprofondato all’interno di Sartoris di Faulkner e inghiottito dalla balena di Moby Dick di Melville.
L’umanesimo in un mondo ipertecnologico
La possibilità da parte di oggetti, siano essi disegni o robot, di prendere vita provando emozioni e attrazione fisica reciproca (Mourir auprès de toi), oppure di esperire l’innamoramento avendo persino la capacità di immaginare e sognare (I’m Here), costituisce un presupposto fondamentale di Lei. Nella sua ultima opera Jonze prende le mosse da qui per spostarsi verso ulteriori direzioni, narrando la nascita e lo sviluppo della vibrante storia d’amore tra Theodore Twombly, un talentuoso e malinconico scrittore di lettere per conto terzi con alle spalle un matrimonio conclusosi infelicemente, e Samantha, un sistema operativo di ultima generazione dotato di intelligenza artificiale e in grado di provare qualsiasi tipo di sentimento. Essendo un software, tra l’altro, Samantha a differenza dei robot di I’m Here o dei personaggi animati di Mourir auprès de toi ricopre uno statuto ancora differente rispetto a quello di oggetto.
Come nel cortometraggio del 2010, allo stesso modo in Lei (ambientato anch’esso a Los Angeles in un futuro simile ai nostri giorni), la vita del protagonista muta radicalmente con l’incontro di quello che è destinato a divenire il suo partner non umano. Tormentato dalla fine del matrimonio, Theodore inizia finalmente ad apprezzare di nuovo ciò che lo circonda grazie a Samantha e alla sua trascinante volontà di sperimentare il variegato spettro di emozioni che offre l’esistenza (“Voglio imparare qualsiasi cosa, voglio divorare tutto, voglio scoprire tutta me stessa”, dice Samantha a Theodore la mattina successiva il loro primo rapporto “sessuale”).
Per la prima volta sceneggiatore unico di un suo lavoro – Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee erano stati scritti da Charlie Kauffman, mentre il copione di Nel paese delle creature selvagge lo aveva firmato a quattro mani con Dave Eggars – Spike Jonze mette dunque in scena un mondo in cui i rapporti tra individui e software possono raggiungere livelli di complessità per molti aspetti paragonabili a quelli che è possibile instaurare tra esseri umani. In tal modo il quarantaquattrenne regista statunitense, oltre a proporre un’intrigante e mai banale riflessione su un possibile (probabile?) sviluppo del rapporto tra uomo e tecnologia, riesce a raccontare con un’abilità di scrittura fuori dal comune qualcosa che ha intimamente a che fare con le nostre vite e i rapporti interpersonali di cui esse si alimentano.
I raffinati dialoghi tra i protagonisti, nella loro genuinità e profondità, sono in grado di rendere perfettamente credibili ed emotivamente dense situazioni che sulla carta sarebbero potute facilmente scivolare nel ridicolo. Da questo punto di vista, decisivo è il contributo dei due attori principali. Se Joaquin Phoenix si conferma uno dei più talentuosi e versatili attori statunitensi in attività (il Freddie Quell che interpretava con maestria nel recente The Master, ad esempio, era un personaggio agli antipodi di Theodore), a sorprendere è Scarlett Johannson. L’attrice, nonostante non appaia fisicamente sullo schermo neppure per un istante, anche solo con l’espressività e il timbro della voce suadente e roca dona al proprio personaggio privo di corpo un’intensità inaspettata.
Da sottolineare è anche la misuratezza e la funzionalità alle esigenze narrative dello stile registico, che rifugge ogni virtuosismo autoreferenziale facendo sovente ricorso a primi piani e inquadrature ravvicinate, ora fisse ora in leggero movimento di avvicinamento verso Theodore, per mettere in risalto con discrezione l’espressività di Phoenix. Significativamente, in una delle scene più toccanti del film, il regista arriva a lavorare quasi completamente per sottrazione: il momento di maggiore coinvolgimento emotivo del primo rapporto “sessuale” tra Theodore e Samantha, infatti, viene sapientemente messo in scena attraverso una dissolvenza in nero che lascia molto all’immaginazione dello spettatore, al quale viene permesso soltanto di udire le voci dei due.
Tra le storie d’amore più potenti, anticonvenzionali e inventive della produzione cinematografica statunitense degli anni Duemila – insieme ad opere come Ubriaco d’amore (2002) di Paul Thomas Anderson, Se mi lasci ti cancello (2004) di Michel Gondry e Beginners (2010) di Mike Mills –,Lei si distingue per la capacità di rappresentare, attraverso il marcato ma al contempo essenziale espediente narrativo del rapporto con un sistema operativo, la natura più intima dell’essere umano nel mondo. Al centro del film di Spike Jonze, in fondo, per quanto la questione dell’evoluzione tecnologica possa ricoprire un ruolo rilevante, non c’è che un’umanità tratteggiata con notevole sensibilità in tutta la sua fragilità, come nelle floride potenzialità. Da questa prospettiva, non è certo un caso che il film si concluda con una dissolvenza in nero accompagnata da un sospiro di Theodore: quello stesso sospiro così caratteristico della sfera umana che, durante una discussione, il protagonista fa notare a Samantha di stare simulando senza motivo, non avendo lei bisogno di ossigeno per respirare.
Articolo pubblicato nel numero 1 di Marla (aprile-maggio 2014)
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