Magazine Diario personale

Lei non c’era

Da Maddalena_pr

C’È UN PUNTO OPACO, UN CRINALE, DOVE IL PENSIERO INIZIA A INTIMIDIRSI, SI RITRAE, VA E VIENE, COME L’ACQUA DEL MARE SULLA BATTIGIA. OGNI VOLTA CHE SI RITIRA SCOPRE UN LEMBO DI SABBIA IN PIÙ: QUELLA SABBIA È PAURA.

DSCN1219_pe_wprnLa chiesetta ha il portone serrato. Me lo aspettavo. Un Dio rinchiuso, io orfana su un marciapiede: ci sarei entrata, giuro. Sarei entrata e avrei pregato in qualche modo, rimestando e ripescando versi di preghiere pregate per decenni e poi lasciate alle correnti.
Sono uscita, il foglio per ritirare gli esami di sabato scorso in mano. Sono uscita e non so nemmeno io perché, con quel foglio tra le dita, in tasca, morbido e ribelle come me, come una scusa.

Sull’ultimo tocco di zapping, ieri sera, siamo caduti sulle notizie: la strage di Parigi.
“Mia madre era a Parigi oggi” mi dice Mathias. Non in quella parte della città, ma la città è forata da una lingua di odio che trivella e arriva dove non si sa. Da amici che non conosciamo, forse sono usciti a cena, a bere. Il Bataclan no, su quello siamo tranquilli. Noi. Mentre la vita si accascia. Noi sul nostro divano ancora a fiori, lui manda un sms, per sicurezza, così. Lei non risponde.

“Dorme” commento, “l’ha spento, è chiaro.”
La notte ci ha portati alla deriva coi sui trucchetti onirici da due soldi. Tant’è: nessuno pensa più.
Stamattina alle 9 ancora niente.
La colazione ci attende, scodelle mute tra le grida dei bimbi: è troppo presto per preoccuparsi. Mathias digita, compone il numero. Spento. Spento.
Prova anche a casa di sua madre, su, al nord, magari non c’è andata, nella capitale.
La voce di lei saluta vicina e lontana, da una segreteria.

Rientro: “Saputo qualcosa?”
Il cucchiaino tintinna come un campanello nella tazza del suo caffè. Gira, gira, sembra che anche i suoni siano diversi dal solito.
L’orologio segna le 10.10: ha lancette come braccia stanche, le muove piano, vorrei soffiarci su, spingerle, soffiare sul tempo e sullo spazio, su, fino a svegliare quella donna. Vorrei essere a dopo.

C’è un punto opaco, un crinale, dove il pensiero inizia a intimidirsi, si ritrae, va e viene, come l’acqua del mare sulla battigia. Ogni volta che si ritira scopre un lembo di sabbia in più: quella sabbia è paura.

Ora siamo seduti sul divano, che non ha più fiori.
Ogni minuto i figli zompettano, Mathias gli urla dietro: non abbiamo i nervi per un solo breve scompiglio, un cuscino lanciato, un salto un canticchiare troppo forte. Cere: così siamo e così è tutto, in questa casa.

Comincia l’Attesa.
La tv sul canale delle notizie. Il cellulare acceso, nemmeno posato davanti: in mano, sempre, segue Mathias in camera, in cucina, in salotto, al cesso. Lo segue e tace, il bastardo.

Doveva andare da parenti, poi, per pranzo. Chiamiamo loro, chiamiamo altri. Voci corrono dove possono, ascoltano chi possono: lei è spenta, spenta ancora, spenta sempre. Non ha risposto ai messaggi, non ha risposto alle chiamate.
Chi cazzo sono i suoi amici? Un numero, un fisso, forse il cellulare non prende, il traffico il caos, trovatemi il numero di quella casa.
Nessuno sa nulla.

Lei non c’era: non era fuori a cena, non era in giro. Lo so. Lo sappiamo.
Ma quel mare fottuto s’agita e la sabbia ci arriva in gola.
Tocco mio marito, il mio uomo, e non so come farlo: non so mentire la sicurezza che ci vuole. Io non so mentire.

La mattina è una serpe lenta. Con gli zii è caduta la linea, non siamo più riusciti ad averli: è vero, le linee sono disturbate.
È già pranzo, i bambini mangiano una polenta. I nostri piatti sono vuoti.
Ci arriva un messaggio di una zia, col numero di quegli amici: chiamiamo, non riusciamo.
Imbraccio l’aspirapolvere e aro il pavimento: su e giù, avanti indietro, mi tengo occupata. E, mentre seguo quel mio movimento, lo osservo quasi non mi appartenesse, Mathias si affaccia dalla cucina: “Mi ha scritto mio zio, sono riusciti a sentire mia madre.”

Hanno cenato in quella casa, pareti troppo spesse, senza campo per i cellulari. Non si sono mossi. Non ha chiamato, non ha pensato che il figlio si preoccupasse. Chiamerà adesso, in questo primo pomeriggio che finalmente si addomestica: la odieremo per la sua ingenuità. La odieremo e l’ameremo.

Era vero: lei non c’era.

Ho conosciuto l’inizio della paura. Ora rientro sul mio litorale. Ma guardo ancora fuori, dallo schermo di una tv che non smette di vivere, di morire e di raccontare: gli altri chi li riporta a riva? Chi salva gli orologi incollati all’angoscia?
Quale e quanto Dio ci vuole?


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