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Leopoldo Barboni – Edmondo De Amicis a Firenze

Da Paolorossi

[...] Firenze capitale lo chiamava e lo attirava a sé ; e di qui la penna ha in lui prevalenza sulla spada. Il bello e ricciuto e forte ufficiale fa risuonare ancora per qualche tempo gaiamente la ghiera della sciabola sulle lastre di via Calzaioli e di via Tornabuoni, su il Lungarno e alle Cascine e sull'impiantito di legno della Tipografia Fodratti, dove redige l'Italia militare, e dove scrive su un angusto tavolino, che ancor rimane, la maggior parte dei suoi Bozzetti. Poi il suono di quella sciabola, che avrebbe potuto elevarlo agli alti gradi nell'esercito, si tacque. La grande arte fiorentina rigurgitante dai musei, dalle piazze, dalle torri, dalle chiese, dai tabernacoli pubblici di Cimabue e di Giotto e di frate Angelico, e quel linguaggio straricco e pieno di movenze, ch'egli, per altro, non riuscì mai intieramente a far suo, furono le cause più vere e imperiose ch'egli dimettesse l'assisa militare.

A Firenze Edmondo non oziò mai, nemmeno quando, attirato dai profumi e dalle viste incantate dei " colli festanti " e delle " convalli popolate di case e d'oliveti ", saliva, col suo e mio amico Ettore Strazza a Fiesole o a Vincigliata, all'Apparita o a Settignano o a Bellosguardo, tutti luoghi divini, sopraccarichi d'arte e ricordi, e d'onde si domina la città di Dante, di Michelangiolo e del Machiavelli, e dove egli, oramai tutto preso della lingua, ascoltava esultante la fraseologia inappuntabile e il frizzo sboccato ma incisivo del contadino o della servetta, del fattore o del barrocciaio, perpetui fornitori filologici ; su quei colli insomma d'onde Vittorio Alfieri in un momento d'ebbrezza del suo genio, gridava :

" Deh chè non è tutto Toscana il mondo ! "

[...]

( Leopoldo Barboni, tratto dal racconto "Edmondo De Amicis" dal libro "Geni e capi ameni dell'ottocento", Bemporad & Figlio, editori, 1911 )

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