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Leopoldo Barboni, Pisa

Da Paolorossi

Ma senza perder più tempo, andiamocene a Pisa, la bella città che, stanca dei rumori del mondo, s'è ritirata in campagna, come la definì Paul Méry, e là troveremo il canonico Francesco Pacchiani, nominato nel 1801 in quella Università alla cattedra di logica e metafisica, e ve lo troveremo circondato d'una eletta schiera d'ingegni.
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Pisa era allora la città mite per eccellenza ; mite il clima, gentile il popolo ; più che mite il granduca, prima del 1799 e dopo la restaurazione del 1814 mostrantesi ogni inverno nella città dotta col viso di castrato, gli stivaloni alla scudiera, i calzoni bianchi, la tunica rossa, un collettone da cani di pastori, e uno spadino che si sarebbe piuttosto giudicato uno schidioncello per infilzare i pettirossi che Sua Altezza di tanto in tanto pigliava alle panie nei floridi boschi di Tombolo e di San Rossore. Sgocciolava la pace giù giù lungo le colonne del Campanile pendente, e l'eco solenne del Battistero ripeteva anche ai sordi:
" Qui si vive. "

E ci si viveva davvero. E a quella vita tranquilla e gaia conferiva il Pacchiani coi suoi epigrammi e le sue bottàte, formidabilmente salaci, o semplicemente allegri : epigrammi e bottàte che il giorno dopo correvano di bocca in bocca per tutta Toscana, e più che spesso passavano il confine.

Ma a noi, viventi in questo secolo borghesemente annoiato, venale, o, direbbe l'Alfieri, " borsale " non è possibile rappresentarci vivi e scolpiti in fantasia i desinari, le cene, le feste di ballo, le colazioni in campagna e le ottobrate signorili d'allora. Le ottobrate soprattutto. Di queste, era, può dirsi, regina e pronuba in Pisa la bella contessa Mastiani, donna colta, spiritosissima, prodiga in amplessi, e da cui il grande Antonio Canova prendeva a modello per la sua Venere Anadiomene la mano candida, tornita mirabilmente. Il Pacchiani era l'anima delle veglie in casa della contessa, e di questa e di quegli si sarebbe potuto dire col Berni :

Ser Cecco non può star senza la Corte,
( Leopoldo Barboni, tratto dal racconto "Il gaio canonico Francesco Pacchiani" dal libro "Geni e capi ameni dell'ottocento", Bemporad & Figlio, editori, 1911 ) Né la Corte può star senza ser Cecco.

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