Ma lietezza maggiore, quasi sconfinata, quasi di bambino impaziente, invadeva il Centofanti quand'io, dietro promessa del giorno innanzi, dovevo andarlo a prendere nelle pure mattinate d'inverno o di primavera e condurlo a respirare una boccatona d'aria fra le aiuole del passeggio lungo la riva d'Arno. Non aveva requie fin che non fossi giunto ; eppure si può ben credere che non
mi facevo aspettare! Giungevo, lo prendevo a braccio, si usciva a soleggiare, e mi pareva che tutti fossero obbligati a sapere chi era quel bel vecchio che mi portavo con tanta cura, e che dovessero dire di me: Come deve esser felice quel giovinotto !
E lo ero siffattamente, che anche avrei voluto tutti i fiori si aprissero al suo passaggio e gli offrissero i loro olezzi. Quelle passeggiate erano splendide pagine di storia, d'eloquenza, d'erudizione, d'arte, di ricordi preziosi. Io non ne perdeva una parola; ma il mie desiderio, direi smodato, era di trascinarlo quasi sempre a parlarmi dei suoi illustri amici, di quegli italiani veri, non armeggioni, non frolli, quasi tutti scomparsi dal mondo. Difatti egli era, col Capponi, col Tabarrini e altri pochi, uno dei più puri superstisti di quel gruppo d'ingegni e di cittadini nel cui dizionario la parola vergogna non si trovava. [...]
Certe mattine, quando il sole splendeva più giocondo che mai per una brezzolina che pareva un processo ai tabelloni dei farmacisti, e le passere strepevano, e le foglie dei lauri luccicavano vividissime, e i navicelli scorrevano per l'Arno, e i navicellai cantavano stornelli: la mente del Centofanti si sentiva più lucida in una beatitudine senza pari, e, ringiovanito di quaranta e cinquant'anni, riandava aneddoti o suoi o dei suoi amici. [...]
( Leopoldo Barboni, tratto dal racconto "Le passeggiate con Silvestro Centofanti" dal libro "Geni e capi ameni dell'ottocento", Bemporad & Figlio, editori, 1911 )