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Giappone, colore, 129 minuti Regia: Takashi Miike Sceneggiatura: Takashi Miike
Nonostante una carriera ricchissima e impressionante di regie, Takashi Miike ha curato la sceneggiatura soltanto di due pellicole, un fantasy che strizzava l’occhio al pubblico più giovane (The Great Yokai War) e uno strambissimo western (Sakuyaki Western Django), tra le prime opere che gli aprivano la strada a una produzione sempre più differente e variegata di stili che in poco tempo l’avrebbe portare a sperimentare tra assurdità per bambini (Ninja Kids), drammoni storici (Death of a Samurai) e perfino commedie musicali (For Love’s Sake). Ed è quindi insolito ma assai benvoluto, oltre che finemente simbolico, che il tanto agognato e chiacchierato ritorno a quelle materie più horror e splatter che ne avevano scolpito la figura, porti la sua firma anche in sede di sceneggiatura, ispirandosi all'omonimo romanzo di Yusuke Kishi.
Ed è un Miike al 100% quello che troviamo, di certo non un back to roots come forse speravano alcuni, cosa che di per sé non avrebbe molto senso, ma un autore totale che mette insieme ogni sfaccettatura di passato e presente, che mescola sì la calcolata ultraviolenza e un accento soprannaturale, ma lo fa con una perizia tecnica maestosa e con una narrazione potentissima, d’acciaio, implacabile, che frulla le componenti più giocose e grottesche, quasi pulp, per agganciarle a una seriosità dura e cruenta che macina decine di personaggi caratterizzandoli prima e maciullandoli poi con un divertito sadismo cinematografico che rende semplicemente la pellicola un enorme, interminabile slasher.
Ma ciò che più colpisce non è tanto l’esagerazione sanguinolenta e la cinica cattiveria, siamo comunque in territori a tratti stravaganti, o meglio dire miikiani, che stemperano bene l’orrore, bensì la granitica capacità di mostrare tutto senza mai spiegare niente, cosa che appare anche un po’ incredibile considerando non solo la complessità strutturale del film ma soprattutto l’alto numero di personaggi che vengono continuamente introdotti, aumentando senza sosta le piccole sottotrame che uniscono gli uni con l’altri, dai diversivi usati dagli studenti per copiare durante gli esami agli amori che sbocciano, dall’abilità sportiva con l’arco all’organizzazione della festa in cui si svolgerà tutta la seconda parte, dalle indagini dei prof per svelare passati criminali a questi passati criminali che emergono con uno stile visionario e malignamente bizzarro che ribalta e reinventa stile e ritmo della pellicola senza sosta (il fantasma che vede il prof Hasumi, il fucile parlante, per non parlare dei corvi e dei collegamenti alla mitologia scandinava). Miike dirige chirurgicamente, mette in sequenza frammenti di vicende che solo con il passare del tempo acquisiscono significato, andandosi a incastrare in puzzle organizzati con gusto sopraffino e studiata malignità – la narrazione stessa del film è un susseguirsi di spezzoni che richiedono attenzione e concentrazione, i flashback si alternano al presente e lo stesso presente subisce variazioni ritmiche senza che, giustamente, la spettatore venga mai avvisato, ne nasce una progressione coinvolgente e inarrestabile, aiutata probabilmente anche dai lunghi silenzi e dai disturbanti interventi musicali con la ripetizione, in diversi, stranianti arrangiamenti, dello stesso brano.
Ne esce quindi qualcosa di pazzo ma millimetrico, una follia tipicamente miikiana creata però con basi solidissime: raccontare di un professore killer e mentalmente instabile che sbrocca e ammazza chiunque gli capiti a tiro non è semplice esercizio di stile o strumento per accontentare i fan con litri di sangue, teste spappolate e corpi dilaniati, ma è grande visione di un microuniverso scolastico, di ragazzi ben delineati nelle loro normali quotidianità che affrontano l’orrore con umana dignità, tanto nel coraggio quanto negli errori e nelle stupidità, senza per forza ammorbare drammaticamente ma sfruttando la vicenda per del notevole, intelligente, esaltante intrattenimento.
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