Varie location: Nancy, Berlino, Copenhagen, Seul, Torino, Aarhus.
Introduzione
La violenza tra i giovani è un aspetto del loro desiderio di creare. Non sanno come usare la loro energia in modo creativo, così si comportano diversamente e distruggono ogni cosa.
Anthony Burgess
C’era una volta la musica “rock”. Chitarra, basso e batteria, il palco, il pubblico, il pezzo, gli applausi, bene, bravo bis. Poi venne il “secolo breve”, con la sua scia di guerre e confusione. Masse ineducate iniziarono a smontare oggetti sonori per il puro gusto dell’avventura. E fu il cappotto che liberò per sempre le musiche da qualsivoglia dimensione di mero intrattenimento, rovesciando il concetto di attore e spettatore. Piano piano si creò un’immaginaria scala, così l’avanguardia intellettuale ne raggiunse i primi ambiti posti, seguita dal jazz, e via a scendere verso gli inferi, nei gradi più bassi della mimesi performativa. Su quel fondo, come dopo il caffè, rimasero granelli di polvere, brandelli di idee che il vento inesorabile della curiosità umana ha spinto fino a noi, fuori dalla claustrofobia delle esecuzioni pilotate, dallo spartito, dal tra-la-la. Questa potrebbe essere una delle tante possibili spiegazioni dietro a Reaction Power Trio. Uno nessuno e centomila rumori, come dice il motto è “Pour Tous, Par Tous, Avec Tout E Partout”, nasce a Nancy come laboratorio/collettivo di noisers per poi espandersi seguendo, più che una qualche razionalità, la modalità di un virus, tra spore rumorose, happening di circuiteria, casse spezzate e altri rottami.
Individuato il luogo e contattati i musicisti, si decide di mescolarli, affidando loro missioni impossibili: suonare come i Borbetomagus su un palazzo di Seul, spaccare a martellate un pianoforte a Copenhagen, insomma spargere ovunque i batteri di questa febbre, creando corridoi sicuri dove far transitare i meglio scoppiati d’Europa, lontano da loschi commerci di etichette o producer senza scrupoli, hipster aristocratici e avanguardisti d’intelletto. RPT è prima di tutto “punk”. All’idea del classico festival o happening è subentrato un sotto-mondo non domato e imprevedibile, che non si potrebbe mai rinchiudere in una scatola dell’industria musicale. RPT è dove ci sono i musicisti, e RPT sono i musicisti. Ecco il senso dell’acronimo, che allude sia alla “serata noise in varie location casuali in giro per il mondo”, sia ai vari “power trios” che si formano casualmente o meno durante un RPT e che affiancano le band “regolari” in un percorso sempre imprevisto…
Benvenuti nelle fogne
Alla sua XXVI edizione, RPT è un evento ormai maturo, con profili di succosa marcescenza che ributtano bave rancide ad ogni espettoramento di suoni qua e là per la noiosa Europa. Non posso dire che manchi qualcosa, in effetti. Avendo partecipato sia da spettatore che da “attore”, posso confermare che il virus è assolutamente inarrivabile: duetti di musica mandata a morire alla fine del rock, segnali elettroacustici, urla belluine e perfino momenti performativi specifici votati alla distruzione di qualcosa. Non potrebbe essere diversamente quando raccogli tutto il peggio dal fondo di quel barile di cui sopra e lo mescoli, agitandolo per renderlo più esplosivo. RPT è la reazione della Cola con le Mentos, solo che qui si accetta il rischio che possa esploderti in faccia…
Andiamo con ordine. In Italia RPT è già passato due volte attraverso Torino, capitale nordista dell’inquinamento e della miseria. Come sempre, per fare un RPT, dietro al contatto che si crea in una città servono loschi personaggi che tramano nei fondi grigi della musica, agganciando altri batteri da cooptare nel tentativo di rendere sempre più letale il virus. Il primo si chiama Utku, è turco ma per semplicità lo definiremo cosmopolita. Bazzica da sempre negli scantinati delle avanguardie più rumorose di tutto il mondo (dalla Norvegia agli States, fino in Oriente) e da sempre suona la sua “drum of death“, un congegno spaventoso di dinamiche associate ad ogni singola parte della batteria che vengono ri-processate dal vivo con filtri e delay, trasformandola in qualcosa che via via può ricordare: i The Necks, un astronave aliena in avaria, un rituale di cannibali, la forgia delle armi di Nettuno, una demolizione urbana, o i rave se li avessero musicati i Throbbing Gristle. Il secondo lo chiameremo Detesta, uomo di corde e dei potenziometri, anche lui rimasto incollato nella melassa improvvisativa come una mosca famelica attratta dal richiamo della luce fosforescente. Da anni si dedica alla costruzione di oscillatori a onde Nand, fotoresistori, ecatofoni a corde libere. Una vera impro-duzione che mette sul piatto talvolta insieme al succitato Utku la temibile creatura Wut, insieme al pericoloso clarinettista polacco Wojtek Bajda.
Questi due avevano le carte in regola per essere RPT: spericolati sperimentatori con tanti amici. A volte basta poco, e il bello è che nessuno esaminerà il curriculum! È grazie a loro, ma soprattutto a tutti quelli che da loro e con loro si sono replicati come mutanti in nuove avventure, che RPT continua a propagarsi. Riesce, grazie alle sue combinazioni aleatorie tra gruppi “veri”, performer d’occasione e semplici curiosi avventurieri delle possibilità infinite del suono, ad essere sempre spurio, mantenendo la sua dimensione orizzontale: contrariamente alla nozione di norma accettata di “scena”, qui alle spalle non esiste nulla o quasi. Durante una serata le band “stabili” possono anche poi produrre solo una delle dieci performance. Certo ci sono musicisti, ma la cosa che rende magnetico un RPT è la combinazione sconosciuta, l’aggancio casuale del “cosa succederà ora?” che ha dato il senso a tutta la musica improvvisa. E cosa succederà domani non si sa, se in uno scantinato francese incontrerai noisers coreani o se in una casa occupata di Torino vedrai un uomo enorme vestito da rugbista che percuote una batteria che sembra minuscola. Così nascono dialoghi e contatti (gioiosi e pure dolorosi, cari i miei timpani sensibili) tra pari così intensi, seppur brevi quanto una nottata, che possono rendere ben accetto chiunque possa produrre un qualsiasi rumore, spetezzo, urlo o barbarismo, e sia disposto a condividerlo: “Vieni a RPT con il tuo microonde. Non sai che bei rumori può fare…”.
Per i musicisti (e non) che vengono coinvolti è sempre la stessa storia: “Ma quale improvvisata! Questo è un Mayhem, dove alla violenza che ci circonda sostituiamo la violenza dei suoni. Di qui la storia delle “Destruction Night”, raccontavano gli Ich Bin Nintendo dopo un live estenuante nel penultimo RPT torinese. Già, può capitare che per la performance si debba scalare un palazzo o che vengano “operate” vere distruzioni, come periodicamente accade. Distruzioni di oggetti, che diventano puro power-industrial. E ancora i light show, le proiezioni, le grafiche dei manifesti, un formicaio di idee in continuo ri-assemblaggio. Questo, molto altro e niente affatto è RPT. Un virus in continuo movimento…
Esempi
Tanto per dire di cosa vivono gli RPT qui sotto provo a dare qualche idea su alcune band che ho visto girare personalmente tra Torino e la Francia.
Oltre ai residenti, cioè gli organizzatori e gli agitatori locali che propongono gruppi, performer ed entità aliene, durante un RPT è d’obbligo anche la formazione casuale di un “power trio”. Ciò può accadere casualmente, oppure mescolando due band od in qualsiasi altro modo possa titillare la fantasia e stimolare la casualità e l’alea. Si vuole dare al caso un forte valore con RPT e questa è una delle caratteristiche che me lo ha fatto amare. Il compendio che segue non vuole essere perciò nè un reportage riassuntivo né un quadro completo o tanto meno definitivo. Come detto su, violerebbe la prima regola di RPT, “Pour Tous, Par Tous, Avec Tout E Partout”, e poi non potrebbe mai restituire sottigliezze dense di significato come l’odore dei posti abbandonati, il piacere di fare l’alba sentendo un oscillatore in loop incastrato dentro un tupperware zeppo di cavi, parlando di gamelan con amici che hai conosciuto un minuto prima mentre sfondavano un valvolare urlandoci dentro…
Phyton vs Cobra (Berlino, Germania, free rock)
Prendete la definizione di “genere” con le pinze. Anzi, già che siete in ferramenta prendete pure i tappi. Un duo spastico e furente, scordato e laido come si conviene in questi casi. Non-musica per esorcizzare la violenza, nella quale i quattro quarti sono una pura ipotesi. Il tutto sta in piedi per miracolo, ma è questo il bello: dal vivo mi hanno ricordato i Lightning Bolt in un delirio alcolico bavarese post-Oktoberfest. Prendete e spaccatevi tutti.
Clodo Misere (Francia, math wrestling)
Visto a Torino, questo allegro duo batteria e pianoline mi ha impressionato per varie cose, tra cui: la mole del batterista, vero pilastro centrale di un quindici rugbistico, anche “cantante” con su una maschera microfonica a metà tra Hannibal Lecter e il football americano, e il tastierista, una specie di Sun Ra dopo qualche decina di elettroshock. Live di un quarto d’ora, stop&go, urla fratturate e un senso dello humour non comune. Una vera sorpresa.
AMENEATSZ (Germania, hard listening music)
Direi che We Puked Our Name On Cover Art, titolo del loro ultimo lavoro, può rendere meglio l’idea di come suonino. Un impasto disgraziato tra Masonna e Godflesh pressato tipo mortadella, e spinto alla velocità dei neutrini in un acceleratore di particelle appesantito da una cupa depressione urbana stile Sightings. Visti e sentiti dal vivo, ma i tappi non sono bastati. File under: sfasciacarrozze.
Gravhund (Danimarca, Den Jyske harsh noise mafia)
Strani tipi questi nordici. Uno pensa alla Danimarca e si immagina fiordi, welfare e foreste incantate dove gnomi dai denti bianchissimi offrono ai viandanti fiori e funghi. Ecco, cambiate idea. Qui c’è una tizia che strilla dentro un campanaccio arrugginito e siamo in una fabbrica abbandonata occupata per l’occasione, tra cocci di vetri, scritte sataniche di tossici e il piscio dei cani. Pur tuttavia c’è qualcosa di perverso e lascivo da cui mi sento attratto come il miele con l’orso. Solo che non è miele. È colla industriale, colata e rinsecchita, e sto pure per cadere da questa pericolosa scala in ferro…
Pierre Bizot (Francia/Germania, crazy guitare )
Bravo Pierre. Non ti sei mai cacciato nei guai in questi anni. Hai sempre suonato la chitarra come t’insegnò il tuo maestro, sei stato rispettoso, non hai maltrattato le cose che i tuoi genitori ti hanno fornito per avviarti alla musica. No. Era un brutto sogno, per fortuna. Bizot ha devastato le sue chitarre in una serie di collaborazioni con urlatori, picchiatori di pelli e torturatori dei cavi in rame. Da Jimi Hendrix al suono di un buco nero, tutto in pochi minuti.
Ich Bin Nintendo (Danimarca, tritatutto pestaduro)
Concludiamo la rassegna dei gruppi esteri che hanno fatto tanto per RPT. Valga questo episodio per raccontarvi di loro: prima di un RPT torinese li portiamo per un breve live notturno a Radio Blackout. Sarà durato in tutto un quarto d’ora, ma i vicini non hanno gradito le fratturazioni rock ultraviolente dei tre, così qualcuno dal palazzo antistante ha lanciato una bottiglia di vetro nel tentativo di colpirci, e solo per un incredibile colpo di fortuna non ci ha uccisi, prendendo solo la tettoia antistante e rompendone le tegole. Ecco, Ich Bin Nintendo suonano così, come una bottiglia tirata sulle tegole. Alle due del mattino. Consigliati anche da Mats Gustafsson.
E poi un po’ di ita-lieni del giro RPT…
Craxi Driver (Italia, mangianastri & sputa-palline)
Nome di piuma della reincarnazione bettiniana entro un suo contrappasso quasi dantesco, mr. Craxi Driver è l’alitosi di Torino. Microfoni a contatto, nastri in cassetta che mandano in loop discorsi leghisti e ricette di Davide Mengacci, oscillatori auto-costruiti che spesso si rompono durante la performance. Il gusto del brutto a raggi laser, ma quelli scrausi che compravi su Postalmarket. Se non si imborghesirà in qualche deriva socialista d’avanguardia per noi sarà sempre stima e simpatia. Qualcuno si chiedeva: “avete paura della merda?”
WUT (Turchia/Polonia/Italia, rimbalzo percussivo)
Vedere, oltre a sentire: per constatare con occhi e orecchie che Utku alle percussioni riprende e risuona se stesso anche quando la gragnola di colpi diventa insostenibile, che Detesta spinge il suo basso dentro diverse scatole fatte in casa e chiuse col nastro isolante, e lo fa uscire come tuono, ape, “ranza” da centrale elettrica. A loro si aggiunge Wojtek, che stritola il clarino quasi come Brötzmann col tarogato, solo che qui la melodia non “esce” mai: senti furia, dolore e sound processing precisi come la lama di un rasoio che ti affetta. Un cammino di espiazione.
Odeon (Torino, rumori nel buio)
La scimmia sulla schiena; un simpatico retaggio del passato che ogni tanto ritorna come un foruncolo. Uno più uno dove alla furia ogni tanto subentra il blues, ma è per un momento. Il resto sono cacofonie, latrati animaleschi, percussività fuori tempo massimo e storie dei bassifondi. Provate ad attraversare i quartieri “malfamati”, questa è la colonna sonora giusta. E se sapete cercare li troverete lì, coinvolti in una giungla di progetti, dal free-jazz sconcio alla meditation music fatta con le bacchettine del cinese. Un marchio di qualità che associa alla bontà delle materie prime una spiccata voglia di far finire tutto a scatafascio.
E così concludiamo questa storia che sicuramente riserverà altre soddisfazioni in futuro. Se amate viaggi avventurosi e rumori da fonderia, basta seguire la scia elettromagnetica.
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