Questa lettera è stata indirizzata a Via Dogana, periodico a cura della Libreria delle donne di Milano, in risposta all’ articolo ‘Un sì e tre no‘ di L. Cigarini, G. Masotto e L. Melandri.
Fail Whale, Ka-92
La situazione politica attuale, soprattutto per la deriva che ha assunto negli ultimi mesi, e in particolare a partire dalle elezioni politiche di febbraio scorso, impone al femminismo una riflessione sulla direzione da prendere e sulle pratiche da sviluppare. È innegabile che gli ultimi avvenimenti nella politica nazionale abbiano nuovamente messo in luce la crisi di un sistema politico che da decenni si mostra come inadeguato rispetto alle trasformazioni avvenute sullo spazio sociale e sulla scena globale. La rappresentanza, questo meccanismo che, almeno formalmente, sta all’origine dello Stato, si è definitivamente mostrata come un sistema che produce una radicale separazione tra “politica” (intesa qui come specifica attività cui sono deputate determinate istituzioni statali) e cittadini. La fantomatica “democrazia diretta” millantata da Grillo e dal suo Movimento 5 Stelle non cambia nulla in questa analisi, anzi, se possibile, la aggrava: la retorica anti-partitica di un partito (sebbene con tratti modificati rispetto alla versione tradizionale) rende le sue dinamiche ancora più opache.
Quello a cui assistiamo è l’esito inevitabile di un sistema politico sorpassato, incapace di rispondere alle sfide del presente. Non si possono leggere la diminuzione costante della partecipazione popolare alle elezioni da un lato, e la pseudo partecipazione grillina dall’altro, se non come conseguenze di questa crisi. Come non comprendere d’altronde la disaffezione nei confronti di una simile politica, una politica che ha nel suo germe la disaffezione, una politica che spoliticizza, evidente antitesi di un potere che pretende di chiamarsi “politica” ma non lo è?
Che fare, quindi? Il femminismo, come giustamente sottolineate, ci fornisce la storia di una politica diversa, l’esempio di pratiche altre, espressioni di una tradizione di pensiero che non si accorda né con quella che trova il suo fulcro nello Stato e nelle sue strutture né con quella che fa del contrasto a queste ultime la propria missione. Potere e contro-potere sono i due poli di un’unica dialettica, sono cioè correlativi: poiché l’uno non può esistere senza l’altro, essi si danno – al di là dell’aspro contrasto apparente – sostegno a vicenda. Essi condividono lo stesso fondamento. Potremmo dire che sono le due facce di un’unica medaglia.
Bisogna guardare altrove e altrimenti, ci dice la nostra tradizione. Altrove rispetto ad un’idea di politica che si esaurisce nella delega, altrimenti rispetto ad una politica che si identifica con un potere che – se è sia formalmente che concretamente lontano dalle decisioni politiche effettive – nondimeno mostra gli effetti di quelle decisioni nei nostri stessi corpi, così vicino da essere ‘dentro’ di noi. Ci troviamo così, nostro malgrado, a reiterare quel potere per mezzo delle nostre azioni e del nostro modo di pensare.
Le pratiche femministe non rientrano nella categoria della reiterazione di questo potere. Sono pratiche di riappropriazione di sé, di ciò che ci circonda e del senso che gli diamo. E sono pratiche che potremmo definire ‘anarchiche’, i principi che le guidano sono quelli dell’autogoverno, della cooperazione e del mutualismo. Non si tratta, a nostro avviso, di “forze aventi natura costituente”, poiché con ciò si rimanda ancora al sistema simbolico dello Stato. Il femminismo, con la sua intrinseca anarchia, non si è modellato sullo Stato e sulle sue regole. La costituzione è un ordine fisso strettamente connesso alle idee di un’unità indifferenziata, uguaglianza e libertà, idee puramente formali, fondate sull’immagine di un soggetto neutro, pretesa universalizzante di un potere che più che tutelare tende ad uniformare. Il femminismo ha piuttosto creato nuove istituzioni, nel senso più ampio del termine. Ha creato nuove regole e nuovi luoghi per la loro estrinsecazione. Queste nuove istituzioni, non gerarchiche, si fondano su una politica dello stare insieme, una politica che trova il suo centro e il suo motore non nell’individuo ma nella relazione, ossia da due in su. Esse cioè sono anarchiche nel senso della creazione di un nuovo senso dell’ordine, non fondato sul potere, ma sulla collaborazione, sull’organizzazione collettiva e condivisa di ciò che si può definire “comune”. Nell’idea del comune sta quel superamento della distinzione tra pubblico e privato che è stato il vero punto di partenza del pensiero femminista. Esso è una sua istituzione.
A cosa diciamo sì?, ci chiediamo infine seguendo il vostro ragionamento. Diciamo sì al seguire la strada tracciata dalla storia del nostro movimento, a quel modo di fare politica intesa come pratica quotidiana che da sempre lo caratterizza.
Diciamo no a reiterare il potere dal quale vogliamo liberarci e no anche a seguire le illusioni di un contro-potere che, per una società a venire, non farebbe altro che riproporre il meccanismo attraverso cui il potere costituto detta legge oggi.
Piuttosto si tratta di continuare a scegliere la strada più difficile, cioè, come direbbe Ranciére, “dimostrare una capacità che è anche, contemporaneamente, una dimostrazione di comunità”.