Può un essere umano vivere senza cibo? I bimbi denutriti che attraversano i nostri schermi costringendoci ad abbassare lo sguardo su pance prominenti e piatti colmi affermano che di fame –inesorabilmente- si muore. E per paradosso estremo, se a quegli stessi bambini agonizzanti venisse offerto un pranzo completo per salvarli, con ogni probabilità morrebbero proprio a causa di quel cibo.
E può un essere umano vivere senza amore? Qui la risposta sembra più semplice: sì, certo. Forse vivrà male, ma vivrà: pur nel silenzio del sentimento, il corpo –se ben saziato- potrà espletare tutte le sue funzioni vitali e sociali, persino far sesso o far figli, senza detrimento alcuno. Ma cosa accadrebbe nella testa e nel cuore di un adulto vissuto senza amore, qualora incontrasse la passione, vera, unica, travolgente? In Lettera al mio giudice Charles Alavoine cerca di spiegarlo all’uomo che lo ha condannato per l’assassinio della donna –la prima, l’unica- che ha amato.
Signor giudice,
vorrei tanto che un uomo, uno solo, mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei.
Affermato medico proveniente da una famiglia di umili origini, sposato in seconde nozze con la perfetta quanto frigida Armande, Charles tenta di convincere il magistrato che non di temporanea incapacità di volere si è trattato (come giudice e giuria hanno decretato), bensì di aver agito in piena coscienza e –ciò che più conta- per amore. È qui il punto cruciale, il nodo nel quale l’apparente perfezione della vita di Charles si è attorta senza scampo: ciò che lo ha spinto ad uccidere Martine –in un tentativo supremo e definitivo di renderla la sua Martine del tutto e per sempre- è questo sentimento nuovo, esclusivo e fortissimo, mai provato prima e che Charles non è in condizione di governare. Non solo la sua esistenza “sociale” ne è sconvolta (lascia per vivere con l’amante moglie, figlie, agi), ma tutto il suo essere è scosso nel più profondo.
Era soltanto la forza irresistibile della vita, di quella vita che mi veniva finalmente concessa dopo che ero stato per tanto tempo un uomo senza ombra.
È così che si sente fino al momento in cui incontra Martine, un uomo senza ombra, dopo una vita passata ad essere ciò che la società si attende da lui che sia, dopo due figlie e due matrimoni senza amore (il secondo anche senza sesso), dopo un’esistenza intera di acquiescenza e passività. Consapevole di aver fallito verso se stesso, ma anche cosciente dell’abisso che si apre sotto di lui, Charles compie un salto immane verso il tentativo di una vita diversa. Sull’altra sponda del baratro, lo stesso movimento compie Martine, giovane donna torturata e incapace di provare piacere, e per questo sempre alla sua ricerca, con un passato pesante e doloroso agganciato alle spalle. Lungi dal salvarsi, dal trovare le ali, incontrandosi cadono entrambi abbracciati verso quella che sanno essere la loro fine.
Nel flusso delle parole si susseguono aneddoti puntuali, tempeste di inattesa felicità e ondate di tristezza immense, scatti di violenza, implacabile lucidità e incoscienza. Ed è a noi che Charles si rivolge, noi siamo i giudici, da noi -che rabbrividiamo ascoltandolo- pretende ascolto, comprensione, e mai perdono. Lettore e giudice sono di fatto una sola entità che alla fine di un processo-farsa lo ha legalmente, giustamente condannato, e non tanto per il suo delitto quanto per l’offesa recata alla gente per bene, alla moglie, al suo stesso buon nome.
Giudici, giurati, pubblica accusa, con orrore crescente assistiamo alla commovente analisi di un sentimento nato già velenoso e di un uomo (solo incidentalmente di una donna) che se ne nutre pur sapendo che gli costerà la vita. Quest’uomo vuole che io comprenda perché ha ucciso l’unica donna che ha amato, ed insieme all’amore –cibo avariato giunto alla sua bocca digiuna, al suo cuore agonizzante- dettaglia i sintomi della propria inadeguatezza, dell’ossessione, della gelosia morbosa, del possesso folle.
Dal canto suo –come spesso accade- Martine è già vittima sacrificale, già consenziente, mai ribelle: riconoscente e grata, ama la mano che la schiaccia, e si comprende che non è la prima volta per lei. Pur riconoscendo il sapore marcio dell’amore malato, sopraffatta dalla stanchezza di sé e marchiata da un opprimente senso di colpa, si lascia scivolare inerte verso l’autodistruzione.
Lettera al mio giudice è stato scritto nel 1946 (e pubblicato l’anno seguente), quando Simenon –sposato- viveva gli inizi della sua “colpevole” passione con Denyse, che divenne qualche anno dopo la sua seconda moglie. Se è difficile non cogliere nelle parole del protagonista –lucide e affilate come un’arma da taglio- quando non una verità autobiografica, almeno una verità di accenti espressivi, è anche impossibile ad una lettura odierna non constatare con raccapriccio quanto storie simili siano ancora quotidianamente attuali.
Occultato sotto il pesante velo della parola “passione”, arma le mani degli assassini il disagio preistorico di uomini incapaci di amare.