Poiché ne condividiamo intensamente i contenuti, pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto da Lea Melandri in occasione dell’incontro nazionale “Donne, vite, politica: cosa cambia?” tenuto sabato 9 febbraio a Bologna presso il Centro delle donne. L’intervento è pubblicato sul blog Paestum 2012, che da settembre scorso tiene le fila del dibattito nazionale sul primum vivere, ed sul numero di Gli Altri da oggi in edicola. A breve pubblicheremo altri report dell’incontro. Intanto buona lettura!
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Intervento all’assemblea di Bologna del 9 febbraio 2013
Comincio con alcune considerazioni critiche, poi cercherò di essere più propositiva. Quello che mi colpisce è che chi ritiene importante la presenza delle donne in parlamento – e più in generale nei “luoghi dove si decide” – lo fa, nella maggioranza dei casi, sulla base di un’idea di “democrazia paritaria”, “pari opportunità”, adempimento del mandato costituzionale contro le discriminazioni. Ciò significa che, dopo mezzo secolo di femminismo – in cui si è parlato di divisione sessuale del lavoro, femminilità e maschilità come costruzioni della visione del mondo di un sesso solo -, il rapporto uomo-donna viene ancora visto come “questione femminile”: le donne rappresentate come un gruppo sociale svantaggiato, un “genere” debole da tutelare, o da valorizzare. L’idea della “cittadinanza incompleta” delle donne e quella che le considera portatrici di “rinnovamento morale”, di una “missione civilizzatrice”, sono le due facce della stessa medaglia, si collocano entrambe dentro la visione maschile della donna: soggetto debole da proteggere, oppure “risorsa” di umanità, o, più prosaicamente, manodopera di riserva per incrementare la produzione. Un femminile, perciò, che ancora si definisce “in relazione” e “in funzione” del sesso che si è posto come misura del mondo. Si torna, di fatto, a una posizione che abbiamo sempre criticato: la rappresentanza di genere, e “genere”, come sappiamo e come ci conferma questa campagna elettorale, è sempre e solo il sesso femminile.
Io so che molte candidate hanno una consapevolezza maggiore di quanto appare dai loro programmi elettorali, per cui la domanda è: perché, quando si entra nei luoghi istituzionali della politica, o in quelli di maggior potere del mondo del lavoro, non si può dire che lo si fa anche per portare cambiamenti a regole, linguaggi, modi, tempi, strutture di potere, che sono state create in assenza delle donne, fondate sulla divisione tra ciò che è politico e ciò che “non è politico”, tra cittadino e persona, sfera pubblica e vita privata, confini che sono saltati da tempo? E’ qui che viene l’altro interrogativo: quanto pesa il modo con cui si arriva a occupare ruoli istituzionali, oltre, naturalmente, alle difficoltà che si incontrano una volta entrate? Le due cose mi sembra che siano in stretta relazione tra loro. Le difficoltà cominciano, a mio parere, in quella anticamera del parlamento o dei consigli regionali, provinciali, comunali, che sono i partiti.
Quando mi si offrì la possibilità di essere eletta, ai tempi del governo Prodi, rifiutai per ragioni diverse, ma per una in particolare. Ho sempre pensato che il declino della forma partito sia cominciata da molto tempo. Era già evidente fin dalla fine degli anni ’60, tanto che giustamente movimenti come quello antiautoritario nella scuola e il femminismo furono visti come “sintomi” della crisi della politica ed “embrioni di un suo ripensamento” (Rossanda). La spinta che veniva dal basso e da soggetti imprevisti come i giovani e le donne i partiti, grandi e piccoli, parlamentari ed extraparlamentari, l’hanno sempre osteggiata, sentita come una minaccia. Chi non ricorda le accuse al femminismo di “rompere l’unità di classe”? Quando hanno capito che il processo era inarrestabile, che entrava in crisi la rappresentanza sotto la pressione di una richiesta sempre più diffusa di democrazia partecipata, la scelta di emergenza che hanno fatto è stata quella dell’ “inclusione”: cooptazione dei o delle leader dei movimenti. Le conseguenze erano evidenti: voleva dire dare un avvallo alla “strumentalità”, al posto di una pratica di relazione, confronto e scambio; mettere la persona “scelta” in posizione di dipendenza e gratitudine; permettere alla parte maschile, quando fossero state elette delle donne, di potersi sottrarre a un interrogativo su se stessi e sulla civiltà che porta la loro impronta storica.
Qualcosa di simile, purtroppo, mi sembra sia accaduta anche nella scelta di Vendola di candidare donne che conosciamo per il loro impegno nel femminismo. Presentate dal leader di Sel come “femministe”, accanto a candidati “ambientalisti” e “pacifisti”, è chiaro che avrebbero finito, sia pure contro le loro intenzioni, per essere viste come “rappresentanti” di un movimento. Se siamo state così critiche sulla rappresentanza di genere, lo siamo ancora di più su quella del femminismo, che non è mai stato o voluto essere un soggetto politico omogeneo.
Vengo alla parte propositiva. La tendenza all’ “inclusione”, che stiamo verificando in questi ultimi anni, non si nega che sia il risultato delle lotte delle donne. Ma, nella forma in cui si manifesta, è visibilmente anche la necessità di un sistema politico ed economico, di un modello di sviluppo e di civiltà in crisi, bisognoso di risorse meno usurate: donne, giovani, e, meglio ancora se donne giovani. Perché non approfittare di questa occasione in modo diverso da come ci si aspetta da noi – estendere alla sfera pubblica il sostegno, la cura materiale e morale che finora è stata data all’uomo nel privato-, e portare invece in luoghi segnati storicamente dalla separazione tra politica e vita, se non la pratica del “partire da sé”, quanto meno un “pensare differentemente” (Boccia), uno sguardo critico sui meccanismi del potere, l’attenzione ai cambiamenti possibili. Lo slogan degli anni ’70 è stato: “modificazione di sé e del mondo”. Sul “sé” molti spostamenti sono avvenuti, sull’orizzonte più ampio della vita sociale e delle sue istituzioni, molto resta da fare. Eppure ci sono donne, femministe, che hanno saperi, competenze, collocazioni professionali di rilievo pubblico, con cui non sarebbe impensabile uno sforzo comune, teorico e pratico, per uscire dalle secche di una politica in via di dissolvimento, insidiata dalla demagogia e dal populismo.
I luoghi dove portare avanti questa riflessione comune non possono essere che quelli creati in autonomia dalla relazione tra donne. E’ una scelta diversa, evidentemente, da quella più conosciuta dei resoconti a cui sono tenuti i parlamentari, in virtù del loro mandato, diversa anche dalla creazione di una rete di sostegno alle elette, e dalle forme che sta prendendo la democrazia partecipata in alcune situazioni locali. Trovarsi a pensare insieme, partendo dalle esperienze di ognuna è possibile, e ci sono già esempi in città piccole, con donne impegnate nelle amministrazioni, assessore e consigliere. Diversa è la condizione delle parlamentari. Nessuna è così ingenua da aspettarsi che le donne elette, sottoposte a molte mediazioni, riescano a non farsi “neutralizzare”, a sovvertire un ordine esistente ancora saldamente in mano maschile. Ci si aspetta tuttavia che almeno ci provino e che si prendano il tempo necessario per mantenere una relazione costante con quelle che restano fuori, attive nel movimento, nelle sue associazioni.
Ma io mi aspetto anche che, per non cadere sempre e di nuovo nell’idea tradizionale di politica separata – per cui sarebbe “politica” solo quella istituzionale -, si torni a insistere che “è già politica” quella che porta nuove consapevolezze, che modifica la vita quotidiana, che cerca nuove forme di lavoro, di solidarietà, di sapere.
Mi preoccupa che tante pratiche, di cui il femminismo ha riconosciuto la politicità, stiano ricadendo nel calderone dell’ “azione sociale” e del volontariato.