di Luisa Mattia
Quando ero piccola, vedevo mio nonno sfogliare le pagine di un vecchio (e un po’ muffito) vocabolario. Mio padre studiava la sera, dopo il lavoro, per prendersi il “diplomino”. Mia madre leggeva libri, riviste e enciclopedie. Mia sorella leggeva e scriveva perché andava a scuola già da un pezzo. Io ero l’analfabeta di casa. Desideravo andare a scuola, per avere quello che ai miei genitori e al nonno era stato negato: saper leggere, saper scrivere e far di conto.
Prima di me, in famiglia, la scuola era stato un sogno inappagato. Difatti, i miei s’arrangiavano con il “fai di te”. Io potevo contare su una scuola per tutti, dunque anche per me, nipote di un calzolaio e di una sarta, figlia di un meccanico e di una casalinga. Bella gente la mia gente di casa, che amava la scuola che non aveva avuto e che ora, per fortuna, poteva offrire a me.
Non fu tutto rose e fiori, come immaginavo io. Era una scuola, la mia, dove imperava l’autorità, la selettività, una certa burbera e indifferente considerazione dei bambini. Però c’erano i libri, l’alfabetiere e una maestra che, pur non amandoci, dedicava tempo a insegnarci l’ABC (come si diceva). E poi c’erano i miei, a casa, che discutevano, chiedevano, scoprivano con me la bellezza di sapere le cose, di andare a cercare quel che ancora non si conosceva, di pensare insieme e non sempre allo stesso modo. Ma farsi delle domande e sapere che le risposte si potevano cercare… beh, era una bellezza!
Ho frequentato una scuola pubblica piena di difetti. E che pure ho amato. Così tanto che ho deciso di insegnare. Per amore, senza dubbio. C’erano stati – per mia fortuna – mentre crescevo dentro una scuola dura, pedagogicamente volta al passato, alcuni giovani maestri, educatori che avevano immaginato il futuro e lo avevano costruito nel presente. Si chiamavano Gianni Rodari, Bruno Ciari, Loris Malaguzzi, Lorenzo Milani. Entrai, da insegnante, in una scuola giovane, piena di fermento. Trovai una vita durissima. Niente sconti a chi lavorava. Pochi soldi. Tanta fatica.
Niente facilità ma molta felicità. Quella contentezza, dico, che viene dalla fatica di aver trovato una strada di risveglio, di pensiero, di prospettiva per i bambini. Tutti. Insegnavo e ho continuato – per parecchi anni - a insegnare in scuole in cui sedevano uno accanto all’altra il bambino che viveva in una casa senza corrente elettrica e la bambina che abitava in una villa. Due mondi separati che si confrontavano, qualche volta si univano, altre volte si allontanavano ma che trovavano uno spazio di convivenza e di sapere comune sui banchi di scuola. Una scuola che non faceva sconti né agli insegnanti né ai bambini ma che si proponeva di non far parti uguali tra disuguali e che, negli anni seguenti, ha cercato di crescere persone e pensiero. Nello stesso tempo, persone e pensiero, perché questa è l’educazione pubblica: offrire opportunità di conoscenza a tutti, dare a ognuno la libertà di scoprire se stesso, le proprie attitudini, i desideri.
L’amore, si sa, è una costruzione. E spesso s’accompagna al disamore. Salvo poi… tornare a un nuovo amore, a una passione. Ci scopriamo pieni difetti, carichi di aspirazioni, forti di molte debolezze, capaci di lampi di genio e di ostinazione. La scuola pubblica, quella “di tutti”, è fatta così, di chiaroscuri. E’ la scuola del giardino coi pavoni e della casa senza luce, della lingua pigra del benessere e della lingua ruvida dell’escluso, della spavalderia dell’adolescente ribelle e della paziente fatica dell’insegnante, del forte e del debole, dell’amore e del disamore. E’ una scuola imperfetta, proprio perché è di tutti. Amo questa scuola difettosa, appassionata e tentata dal disamore, mortificata eppure orgogliosa di sé, capace di desiderare un mondo nuovo. Credo di non essere sola in questo amore.
Roma, 2 marzo 2011
Magazine Cultura
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