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Lettera del giornalista “che non conterà mai nulla” al collega “col mutuo da pagare”

Creato il 06 aprile 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

Gentile giornalista con il mutuo da pagare, Dio sa quando mai nella mia lettera ho detto che non voglio lottare o ho dato dimostrazione di scarso adattamento. Mi sono dispiaciuto per la (gravissima) vicenda che ha coinvolto il giornalista Loffi e il direttore Leoni (un colpo infimo per la libertà d’informazione). Non mi risulta d’essermi lamentato per la “metastabilità” cronica che fa del giornalista una foglia di ungarettiana memoria. Non mi risulta neppure d’aver inveito contro le lune dell’editore, “mobile qual piuma al vento”. Non solo comprendo il Suo sfogo, ma lo condivido pure. Quel che non comprendo è cosa c’entri con la mia lettera. Nella quale parlavo di tutt’altro: dell’immobilismo della società cremonese, dell’élite di questo buco marrone di città (meglio, di provincia), del suo splendido isolamento culturale e sociale che rischia di farla sparire dalle mappe turistiche, oltre che economiche. Che c’entra con la lotta e l’adattamento? Ma Lei almeno sa chi sono? Conosce la mia storia? Come fa a darmi, tra le righe, dello smidollato senza sapere manco gli estremi del mio documento d’identità o il numero di tesserino, caro amico (che, dallo stile, mi sembra quasi d’aver già incontrato nella redazione dov’ero prima).

Quando mai io non ho lottato? Chi mi conosce credo non abbia remore ad ammettere che la lotta per me è quotidiana, nel cercare di informare i lettori sulle cose importanti alla modica cifra d’un pugno di euro (e di condizioni fisiche sempre più precarie). E ho mai desistito da questa lotta? Se questa non è passione, abnegazione, sforzo incessante, volontà di non mollare (in tedesco si potrebbe dire “streben”) allora proprio non so cosa fare più di così. Sin dai tempi in cui ho iniziato a lavorare nel primo giornale dove sono stato, mi sono adattato. E mi sono adattato a cose ed a situazioni che i grillini farebbero bene a considerare, invece di pigliare a pesci in faccia i giornalisti. Me ne devo fare una ragione? Me la sono fatta, eccome: e quando mai ho sostenuto il contrario?

Non sono certo il romantico che guarda il cielo in lacrime lamentandosi delle brutture terrestri (e neppure il giuggiolone che guarda la vita con ingenua aria giuliva). Mi sono sempre dato da fare, caro giornalista. All’università d’estate facevo lo stagionale in fabbrica mentre gli amici erano al mare. Mentre mi laureavo ho fatto il magazziniere per due anni . Sono entrato nel primo giornale come cronista sportivo, poi sono andato avanti: con le mie forze, stringendo i denti e sempre con un’etica del “fare” mai del “parlare” (magari ogni tanto lamentandomi un piccolopoco ma mai con attitudine rinunciataria).

Tengo duro, non mollo, e credo, nel mio piccolo, di essere più “duro” io, assieme a Lei, a Zignani e a parecchi altri nella nostra situazione, rispetto a tanti giornalisti pluriraccomandati che scavalcano coloro che si sono sempre fatti in quattro per il fatto di avere magari il marito che lavora già per l’editore, o di avere la fama di essere persone controllabili e remissive (anche a questo mi sono adattato, glielo dico in anticipo). Anch’io ho subito un naufragio (ne ho subito uno solo, Lei è “più avanti” di me con due) eppure sono ancora qui. La caduta c’è stata ma mi sono rialzato, mi sono spolverato i calzoni dal terriccio, ho reimpugnato la penna e ho ricominciato a fare il mio lavoro. Ho visto ex colleghi attorno a me sistemarsi pian piano tutti grazie ai loro intrallazzi, e ho visto, di rimando, le schiene dritte restare ai margini. Non dico che non conto nulla per vittimismo, lo dico perché ho la piena consapevolezza che «nessuno conterà mai nulla». Ho desistito? Mi hanno minacciato più volte di querela (i documenti poi mi hanno sempre scagionato). Ho avuto a che fare più volte con politici e amministratori che provavano a farmi paura. Ho avuto a che fare con editori senza scrupoli che rubavano la vita (ancor prima che i soldi) alle persone: perché per il tempo, purtroppo, non c’è vertenza (come, pensando al caso del direttore Leoni, «non c’è protesi alla stupida amputazione di una voce, di un’anima»). Eppure ho rinunciato? Nossignore. Non ho mai temuto il mare aperto. Il mio mondo non è il cielo casalingo e provvidenziale dell’universo manzoniano, ma l’alto mare aperto e problematico del dialogo leopardiano tra Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez (ricordate? – Bella notte amico – Bella in verità). E’ la speranza che muove quel cielo, e la speranza fa parte del mio vocabolario. La speranza del capitano McWhirr nel Tifone di Conrad, che punta i piedi in mezzo alla tormenta senza rinunciare alla lotta. La speranza di Leopardi, l’edonista infelice. La speranza di un Calvino, che affidò all’emblema iridescente della madreperla un poeta aggrappato allo scoglio come Montale. La speranza è quello splendido cortocircuito tra l’ottimismo più ingenuo ed il pessimismo più paralizzante. «La speranza è una cosa buona, e le cose buone non muoiono mai». La speranza è cambiamento, evoluzione, elasticità, adattamento. Occorre solo cercare, lo auguro sempre di cuore, che l’adattamento non si tramuti mai in rassegnazione o ossessione.

Cordialmente,

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