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LETTERA DI EDUARDO DE FILIPPO AL MINISTRO DELLO SPETTACOLO, Paese Sera, 1 ottobre 1959

Creato il 02 novembre 2014 da Marvigar4

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fonte: http://napolidieduardo.blogspot.it/

Onorevole Ministro,

l’amico e collega Rossellini Le ha parlato del cinema italiano. Mi consenta di parlarLe del teatro italiano. Le ragioni sono suppergiù, fondamentalmente, le stesse. Ma le sofferenze del teatro sono di gran lunga più gravi e dolorose di quelle del cinema, e oso dire di gran lunga più scottanti sia per chi ne è la causa diretta, sia per il Paese sul quale purtroppo ricade il disdoro di avere il Teatro più depresso e più vicino alla morte fra tutti i paesi civili del mondo. Personalmente potrei risparmiarLe questo discorso. Io ho superato abbastanza bene i venti anni di isolamento e di ostracismo datimi dallo stesso Dicastero che lei dirige da poche settimane, riuscendo a far applaudire in Patria e a far conoscere all’estero il mio teatro; e dalla fine della guerra ad oggi ho continuato, nonostante il medesimo ostracismo e il medesimo isolamento, a farlo applaudire in Patria e a farlo conoscere all’estero. Senza dubbio anche Rossellini avrebbe potuto risparmiarLe il suo discorso, formulato all’indomani di un successo che gli riapriva tutte le porte in Italia e fuori. Ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata, di avere una bella casa in mezzo alle macerie. Nella società moderna le torri d’avorio possono trovare posto solo nei musei perché a lungo andare ogni possibilità di comunicazione fra l’arte e l’umanità cessa se si affievolisce fino a scomparire la consuetudine degli uomini di nutrirsi, oltre che di fettuccine, di competizioni sportive, di canzoni e di sermoni, anche delle emozioni, degli insegnamenti e del divertimento che l’arte può offrire.

Mi creda, onorevole Ministro, che è con sgomento che io penso al vuoto che di anno in anno si va facendo intorno al teatro in Italia e alle decine di migliaia di spettatori italiani che – come le statistiche dimostrano inequivocabilmente – ogni anno si staccano per sempre dal teatro senza che altri prendano il loro posto; che è con angoscia che penso, guardandomi intorno con l’occhio clinico del teatrante incallito, a tutto quello che si va facendo sistematicamente per raggiungere l’ormai incombente anno zero del teatro italiano, e a tutto quello che non si fa e che si dovrebbe fare per allontanare la minaccia.

Ma cercherò di accennare subito alle questioni di fondo: prima fra tutte la posizione dello Stato nei confronti del teatro. Posizione, Onorevole, fra le più ambigue, e purtroppo – mi spiace doverlo dire a Lei che non ne ha proprio colpa – non solo assai somigliante alla posizione del defunto stato fascista, ma anche assai peggiore. Questo Stato, rispetto al teatro, vorrebbe essere nel medesimo tempo uno Stato mecenate e uno Stato liberale. In realtà è soltanto uno Stato tirannico, che per sembrare mecenatesco e liberale non esita a fare il più largo uso dell’ipocrisia e della corruzione.

Il teatro italiano, uscito in brandelli dal ventennio fascista, aveva urgente necessità di cure, e soprattutto di respiro. Era – ed è – un patrimonio della Nazione come le pinacoteche e i monumenti; e lo Stato repubblicano e democratico non poteva rifiutare il suo intervento. Ma piuttosto che utilizzare come ha fatto la odiosa macchina fabbricata dal fascismo era meglio se rifiutava qualsiasi ingerenza, lasciando ai teatranti il compito di curare con i loro sforzi il malato e limitando la propria azione all’impianto di una normale e legale censura con le chiare e precise prerogative delle censure di tutti i paesi civili. Ma, come con il favoreggiamento statale di persone incredibili le quali non possono sfornare niente altro che film incredibili (film, cioè, che finiscono sempre per centrare questo obiettivo: concimare la stupidità e la volgarità, abbassare il livello intellettuale e spirituale della popolazione, deprimere i costumi) così, con la creazione dall’alto di una ristretta clientela privilegiata e parassitaria – privati individui ed enti di comodo – che dovrebbe nascondere il dispotismo sotto la patina della libera iniziativa, si è ottenuto un teatro di evasione (testi classici, copioni importati e, in bassissima percentuale, goffe rimasticature del teatro boulevardier) altrettanto gradito.

Ma gradito a chi? Non certo al pubblico che reagisce disertando i teatri. Si tratta dunque di un teatro, o di un pseudo teatro, gradito alla ristrettissima cerchia dei beneficati, oltre che agli sprovveduti benefattori. E dico sprovveduti perché proprio non si vede che cosa essi possano attendersi sul piano politico da un’azione svolta in un settore come il teatro di prosa che, se anche non fosse nelle condizioni di agonia nelle quali versa, se anche fosse uno dei più floridi teatri di prosa del mondo, rimarrebbe un campo frequentato da una infinitesima parte della popolazione e soprattutto dalla parte più intelligente e smaliziata, refrattaria alle suggestioni e non bisognosa di tutele.

Ma il teatro, a differenza del cinema e della televisione che nella vita d’oggi sono generi di prima necessità – e sappiamo purtroppo che quando uno Stato decide di vietare le importazioni di caffè e di fabbricare cannoni invece di burro, ci si deve accontentare dei surrogati – non può esistere privato o svuotato dei propri valori effettivi e della propria funzione.

E la pretesa di sostituire il teatro ritenuto ‘controproducente’ con un teatro ‘di tutto riposo’, estraneo ai problemi, alle ansie, alle speranze, agli aspetti dell’umanità e in particolare di quella porzione di umanità che parla la nostra stessa lingua, equivale al proposito di distruggere alle radici il Teatro.

Non si può dire che in questo dopoguerra non si sia marciato costantemente in questa direzione, incoraggiando tutte le forme di dilettantismo estetizzante, della esterofilia provinciale, del pompierismo in guanti gialli gabbati per progresso, modernità, cosmopolitismo e cultura; o aiutando l’analfabetismo ‘impegnato’ a far danzare il cadavere putrefatto del teatro borghese della fine del secolo scorso e degli inizi del nostro.

Come Lei vede, onorevole Ministro, io non sto parlando di me e del mio teatro. Un pubblico, in qualsiasi città o villaggio d’Italia, oltre che – come autore – in molte città del mondo, io l’ho conservato. Ma io sono autore del 95 per cento e il regista e l’interprete di tutto il mio repertorio. Io ho saputo resistere alle lusinghe delle mode e alle imposizione dei modisti: o mangiar questa minestra o saltar quella finestra. Io parlo per quelli che, essendo alla mercé di chi ha il coltello per il manico – di chi può accettare o rifiutare un copione, dare o non dare una scrittura, assegnare una parte importante o scadente, commissionare una scenografia o no – non sono nelle condizioni di aprire bocca. Ma soprattutto parlo per il Teatro.

Bisognava e bisogna dire finalmente senza peli sulla lingua quello che, dovunque esista ancora una preoccupazione e una speranza per le sorti del nostro teatro, si va ripetendo ormai da più di dieci anni, e cioè che i proconsoli e i parassiti di tutti i generi che formano la barriera innalzata dallo Stato impresario fra se stesso e il teatro potenziale, sia che agiscano come private persone o come esponenti di enti di comodo, sono tutti, indistintamente, degli estranei al teatro, così come sono estranei al teatro gli ‘esperti’ dei quali sia la Direzione generale dello spettacolo che gli enti suoi satelliti si servono per gettare polvere negli occhi.

I primi non hanno alcuna qualifica, anzi, spesso hanno non pochi titoli specifici che li squalificano.

Gli altri (gli ‘esperti’) o sono gestori di teatri, cioè i primi e diretti nemici di quel ‘teatro d’arte’ al quale in teoria sarebbero riservate e nello spirito e nella lettera le cosiddette provvidenze, o critici, cioè giornalisti: e non si vede proprio come un giornalista possa essere considerato un ‘esperto’! In quale settore della vita nazionale – in Italia e fuori – un giornalista, anche specializzato, viene chiamato a fungere da ‘esperto’, salvo che nei settori di sua competenza che sono la stampa e la propaganda? L’ ‘esperto’ è il docente universitario, è lo scienziato, è lo studioso, è l’artista, mai l’articolista o il resocontista. Non credo che qualche cronista giudiziario sia stato chiamato dal Guardasigilli a dire la sua sulla riforma dei codici. Si tratta anche in questo caso di pochissimi clienti fissi dell’apparato burocratico che amministra il teatro italiano (la grande maggioranza dei critici italiani – i semplici resocontisti e gli studioso specializzati, gli storici, i saggisti – non gode presso la Direzione dello spettacolo qualifica di ‘esperto’); e come i vassalli che hanno tutta l’aria di fare e disfare a loro capriccio, ma in realtà fanno e disfanno secondo le direttive emanate dall’alto, gli ‘esperti’ servono da comodi paraventi della politica a volte personalissima e a volte interprete della ‘volontà superiore’.

So che la apposita commissione di ‘esperti’ convocata pochi mesi fa per decidere l’invio a Parigi di una compagnia italiana, espresse un sommesso parere contrario alla proposta formulata dal rappresentante della Direzione generale dello spettacolo, e si sentì rispondere: ma noi abbiamo già deciso così.

Ripeto, io sono ormai al termine della mia carriera, sono contento di quello che, sia pure con tanti sacrifici e tante amarezze, ho realizzato, non ho bisogno di niente anche se la mia situazione economica non è delle più floride (invece di farmi ville e yacht ho voluto ricostruire un celebre teatro distrutto dalla guerra, e per pagare questo ‘lusso’ da molti anni i miei diritti di autore sono bloccati a favore delle banche), non chiedo niente per me. Parlo perché credo sia mio dovere parlare, perché l’idea di veder morire insieme a me il teatro del mio Paese mi è insopportabile. Si dirà che lo sviluppo della motorizzazione, dello sport, della radio, e l’avvento della televisione, sono le cause prime dello stato agonico al quale è giunto il teatro. E’ una tesi che, per essere dimostrata, ha bisogno di una risposta a questa domanda: che cosa è stato fatto per aiutare il teatro a vivere? In tutta coscienza non solo si deve rispondere che non è stato fatto nulla, ma bisogna affrettarsi ad aggiungere che è stato fatto tutto il possibile e persino l’impossibile per aiutarlo a morire.

La mia lettera per ora potrebbe terminare qui. Con una esortazione a strappare la macchina in funzione con il deliberato proposito di ammazzare il teatro dalle mani alle quali è stata affidata e ad affidarla a chi di ragione, dopo di che si potrà valutare se davvero la motorizzazione, lo sport, la radio e la televisione siano gli elementi che danneggiano il teatro. e in che misura.

Ma il mio sarebbe un acido sfogo e si presterebbe a molte illazioni se non sentissi di dover indicare con maggiore precisione le cause de mali che affliggono il nostro teatro e i rimedi dei quali il moribondo ha urgente bisogno.

Anzitutto, i fondi che lo Stato mette a disposizione del Teatro sono insufficienti. (Non parlo per me ripeto: io non ho bisogno di niente). Già più volte è stato fatto rilevare che le cosiddette e tanto strombazzate provvidenze altro non sono che una parte di ciò che lo Stato introita in tasse erariali ed IGE dal teatro.

Ma il guaio peggiore non è qui. Tutti i guai, o la maggior parte di essi, risiedono nel come le cosiddette provvidenze sono elargite. L’Italia, è risaputo, non ha, come l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, etc., una metropoli che, sotto il profilo della cultura e del costume possa insegnare qualcosa a molte altre decine di grandi e illustri città.

Né la capitale effettiva né quella ‘morale’ né taluni grossi capoluoghi di regione si distinguono per le tradizioni e per i fermenti culturali dalla maggior parte dei cento capoluoghi di provincia e persino di numerose e vivissime cittadine. Ho sentito – e anche a Lei forse sarà pervenuto l’eco – qualche stonatissima campana che vorrebbe sostenere la tesi aristocratica e antipopolare della necessità di convogliare tutti gli sforzi per mantenere in vita il teatro nelle sole due maggior città italiane, privandone tutte le altre. Ma se è giusto e naturale che tutto o quasi tutto o gran parte del teatro nazionale sia raggruppato a Parigi, Londra, e a New York, non sarebbe davvero giusto e naturale (e mi permetto di aggiungere che sarebbe delittuoso e profondamente immorale) che l’Italia, con i suoi tanti grossi e vitalissimi centri urbani, quasi tutti dotati di magnifici e illustri teatri, fosse il punto in bianco privata della linfa tradizionale rappresentata dalle Compagnie di giro, per dare a un paio di sperperatori professionali di pubblico denaro la possibilità di compiere in modo sistematico gli esperimenti a volte pazzeschi che tutti ricordiamo. La stessa esperienza della sottrazione delle ‘provvidenze’ al vero teatro a favore di tre o quattro o cinque teatrini stabili (per modo di dire), ove da più di dieci anni si innalzano grosse nuvole di fumo su pochissimo arrosto, e ci si agita e si strilla e ci si gonfia e si spendono parole altisonanti, per sfornare in una striminzita stagione pochi, non sempre degni e raramente utili spettacoli fra la generale indifferenza, come gli indici delle presenze testimoniano in modo schiacciante, dimostra che si è fatta molta, troppa strada lungo sentieri tortuosi che non possono portare a nessuna meta desiderabile.

Io non Le dico, onorevole Ministro, di abolire queste minuscole mignatte. Ammetto anzi che esse possano costituire un ornamento in un Paese come il nostro che si va sempre più distinguendo per la sua indifferenza per non dire la sua ostilità verso la cultura e l’arte. Ma gli ornamenti non possono sostituire l’abito. Un fiore all’occhiello di una persona nuda sarebbe una teoria piuttosto paradossale e bizzarra.

Eppure è questa la teoria in base alla quale dai due ai trecento milioni annui vengono sottratti al vero teatro da macchiette locali, politici municipali, filodrammatici e semplici furbacchioni, da persone, cioè, che si autoqualificano teatranti, ma che non solo coi teatranti non hanno nulla da spartire, ma dei teatranti sono accaniti, irriducibili e spietati nemici.

Perché gli autentici teatranti non possono essere, ovviamente, i cosiddetti organizzatori, nè gli impresari professionali od estemporanei, nè i tre o quattro poveri diavoli nominati ‘esperti’ dalla burocrazia governativa, ma prima di tutto gli autori e subito dopo gli attori. Mi consenta di parlarLe di queste due categorie, fra le più osteggiate e umiliate dalla camorra teatrale imperante. In nessun paese l’autore drammatico è trattato come da noi. In Francia qualunque autore straniero deve essere rappresentato con l’avallo di un autore nazionale e sui cartelloni il nome dell’autore dell’opera originale viene dopo quello dell’autore adattatore e presentatore. Da noi è accaduto più volte che un autore, per essere rappresentato, abbia dovuto assumere uno pseudonimo straniero.

Si dirà che gli autori italiani ‘validi’ sono pochissimi. E come mai? Una ragione dovrà pure esserci, dato che in nessun campo in cui siano richiesti fantasia e intelligenza, gli italiani sono secondi; e dato che, come il mio ‘caso’ dimostra, quando un autore non deve dipendere da un capocomico o da un ‘organizzatore’ la sua brava novità dell’anno, e qualche volta anche due, riesce a sfornarla con esiti assai spesso soddisfacenti. Io credo che la ragione sia una sola: la condizione paradossale in cui è tenuto in Italia l’autore drammatico, dal giorno in cui la giusta ondata di reazione al teatro borghese e al teatro autarchico (non meno borghese, con buona pace dei cerchi di fuoco di Starace) sollevò nugoli di equivoci dai quali i più furbi e meno qualificati maneggioni uscirono su posizioni di privilegio che hanno mantenuto e tuttora mantengono.

E poiché la naturale posizione di un autore nel teatro è quella dominante, essi hanno cancellato questa legge naturale dando a se stessi, in qualità da improvvisati registi o critici, o, peggio, di‘organizzatori’, la posizione usurpata. Ne conseguiva la necessità costante di mantenere l’autore in uno stato di inferiorità, di circondarlo di indifferenza, e addirittura di disprezzo, di diffamarlo, di escluderlo dalla spartizione delle cosiddette provvidenze, invocate e ottenute con clangore ciarlatanesco. La complicità dello Stato, che ha legittimato l’invasione del campo da parte di questi signori, è valsa a estromettere completamente la figura dell’autore dalla nostra scena di prosa, talché oggi l’Italia è il solo paese civile del mondo nel quale la professione dell’autore drammatico sia divenuta impossibile.

Ripeto: posso farla io perché sono io a mettere in scena e a recitare le mie commedie e perché ho cominciato 40 anni fa. Ma se dovessi incominciare oggi, se avessi bisogno degli ‘organizzatori’, dei ‘capocomici’ e di quei registi che vanno – a corso forzoso – per la maggiore, non credo che me la sentieri. Credo anzi che da un pezzo avrei cambiato mestiere. Anche perché non so come potrei vivere, se è vero che gli incassi sono insufficienti – donde le‘provvidenze’ governative delle quali tutti beneficiano, come ho già rilevato, a cominciare dagli impresari o organizzatori che dir si vogliano – e l’autore, escluso in modo assoluto dalla spartizione delle ‘integrazioni’ statali, è rimasto ancorato a una percentuale sull’incasso: la stessa percentuale di cinquant’anni fa, quando l’incasso era più che ‘sufficiente’, e di quando una commedia di successo medio aveva una lunghissima vita assicurata sia dalle compagnie triennali, sia dalle immancabili riprese, tutte cose che ora un autore non potrebbe davvero sognarsi. Oggi il guadagno di un autore per una commedia ceduta a una compagnia di giro o a un teatro stabile non copre le spese vive (copisteria, viaggio, soggiorno per assistere alle ultime prove e alla prima, fiori alle attrici). E come si può pensare alla formazione di un autore costretto a fare altri mestieri per vivere se non ha beni propri di fortuna? Eppure lo Stato capocomico assicura ad altre categorie, che non hanno certamente il peso che ha l’autore nel teatro, e che anzi, come già ho detto e ridetto, vi hanno un peso negativo, eccellenti condizioni di vita!

Il forzato esilio dell’autore dal teatro si estende, naturalmente, anche alle rappresentazioni delle opere straniere. In tutto il mondo i testi stranieri debbono passare per le mani di un autore nazionale qualificato, ed è giusto che sia così non solo per motivi che potrebbero sembrare ‘sindacali’. Un’opera straniera ha bisogno di un vero e proprio adattamento, di una profonda mediazione, se no resta un vuoto e freddo documento. Ma da noi l’incetta dei testi stranieri viene esercitata direttamente dagli affaristi mandatari dello Stato, i quali trattano la partita con i privati importatori, nient’altro che speculatori senza nessun titolo e senza nessuna qualifica.

Si aggiungano a questo idilliaco panorama i reticolati della censura, esercitata non già alla luce del sole, e non già in base ad una legislazione che tenga conto delle libertà vigenti nei settori di gran lunga più vasti del teatro di prosa, come la stampa e persino il cinema, ma a mezzo di strizzatine d’occhi e di conciliaboli segreti fra i capocomici proconsoli e i rappresentanti della burocrazia – di modo che un autore non saprà mai o non potrà mai affermare di non poter essere rappresentato per una causa di forza maggiore – e come se non bastasse oggetto di furibonde campagne politiche aventi lo scopo di metterla su un piano legislativo degno del più arretrato villaggio africano (Lei avrà certo sentito parlare di un famigerato progetto di legge che chiama in causa padri e madri di famiglia e che prevede la denuncia all’Autorità giudiziaria dell’autore di un copione giudicato non rappresentabile e ‘non ritirato entro venti giorni’!) e mi si dica perché mai una persona non stupida e non meschina, in grado di scrivere per il Teatro, dovrebbe scegliere questo tipo di attività così avvilente, così poco redditizio e così pericoloso, e non darsi invece ad altre più dignitose, fruttifere e tranquille occupazioni.

Può darsi, dunque, che sia vero che non ci sono autori o che ce ne sono pochissimi. Ma quando si è detto questo non si è detto niente. Quello che bisogna dire è che cosa si è fatto per incrementare il numero e la qualità dei nostri autori. E la risposta ovviamente è che non solo non si è fatto nulla, ma si è fatto di tutto per allontanarli e per distruggerli; che non solo nessuno dei pochi sultani spesati dallo Stato per pontificare nel teatro italiano contemporaneo può dire di aver mai fatto veramente il produttore di spettacoli nazionali contemporanei mediante una assidua e impegnata opera di sollecitazione verso autori qualificati o potenziali, facendosi mediatore e consigliere fra la loro opera e gli interpreti, investendo in questa attività una cospicua parte dei fondi (statali) di cui dispone, e per poi difendere e valorizzare il comune prodotto, ma che al contrario tutti questi ben pasciuti signori hanno tramato e congiurato e persino urlato contro la produzione nazionale contemporanea allo scopo di ottenere dallo Stato mano libera vuoi nell’importazione diretta di opere straniere che con l’arte il più delle volte hanno ben poca parentela, vuoi nell’andare placidamente alla deriva su la comoda barca dell’antologia e delle riesumazioni.

Si è arrivati al colmo dell’imprudenza: alle minacce di serrata (che forse è mai questa? Non ci saranno, dietro le quinte, le solite strizzatine d’occhio? Le solite direttive sussurrate?) “perché – si sbraita – se non ci si dà dell’altra corda, ancora dell’altra corda, il teatro muore!”. No signori, siete voi che lo state uccidendo, il teatro! Voi che state succhiando al teatro le ultime gocce di sangue escogitando chissà quali nuove carnevalate, annunciando chissà quali nuove montagne che partoriranno il topolino, preparando nuovi buchi nell’acqua che stizzosamente attribuirete alla incomprensione del pubblico, architettando chissà quali nuovi programmi all’insegna del dilettantismo, dell’egoismo e della più assoluta indifferenza per le sorti del teatro che, se anche è affidato alle vostre mani di trafficanti, non è patrimonio che vi appartenga e con il quale abbiate legalmente e moralmente qualcosa da spartire.

E qual è la condizione degli attori? Come si può mantenere unita ed efficiente, come si può formare una classe di attori con le poche e sporadiche e brevissime scritture che ogni anno non impiegano più del 50 per cento degli attori professionisti vecchi e nuovi? Perché mai i teatri stabili e le compagnie sovvenzionatissime non hanno l’obbligo di presentare alla Direzione dello spettacolo scritture quinquennali o almeno triennali con gli attori? Non è soltanto militando in una compagnia di lunga durata, salendo i gradini della carriera passo passo, sperimentando le proprie attitudini e le proprie qualità in vari ruoli e in vari testi, che un attore già formato può perfezionarsi o comunque dimostrare la propria efficienza e un attore nuovo formarsi? La situazione di un attore, e non solo di un attore medio, è invece quella di una continua ansia e di una assillante ricerca giorno per giorno del lavoro e del pane. Continuamente egli deve bussare a qualche porta per tirare avanti: oggi alla Radio, domani a uno stabilimento di doppiaggio, ora a un teatrino in cui si dà (per accontentare qualche tapino) un lavoro nel quale non crede nessuno, ora al favorito della Direzione dello spettacolo che ha avuto l’incarico di organizzare una tournèe, ora alla Televisione, ora all’Istituto del dramma antico che prepara uno spettacolo a Ostia o a Siracusa.

Vere e proprie eccezionali fortune, le scritture stagionali. Ma anche le stagioni, che fino a qualche anno fa erano di sei mesi, adesso si sono accorciate e spesse volte non durano più di tre-quattro mesi compreso il periodo delle prove, quando già non si sia adottato il nuovissimo andazzo delle assunzioni spettacolo per spettacolo.

Ma, a parte il fatto che anche per gli attori gli anni sono di dodici mesi e non di tre o quattro, quella di una scrittura stagionale è una fortuna relativa. S’informi, onorevole Ministro, presso i nostri attori, intorno alla magnanimità e alla larghezza di vedute dei mandatari della Direzione dello spettacolo! Chieda qual è la dignità e la serenità che i vassalli della Direzione dello spettacolo, i parassiti del nostro teatro, mille volte più gretti e insensibili degli esosissimi liberi impresari di una volta, assicurano agli attori italiani!

L’attore è dunque, come l’autore, alla mercé dei mandatari governativi, vale a dire di estranei e di incompetenti, di speculatori e di parassiti. Il mondo alla rovescia. Estraneo a casa sua. Ad aspettare e ad invocare la grazia dagli usurpatori delle sue prerogative. Senza il diritto di dire una parola, di esprimere un consiglio, di esporre un opinione.

I denari sono quelli che lo Stato dà al teatro per il teatro, oltre a quelli che il pubblico paga per andare a teatro. E il teatro è, con l’autore, l’attore. Ma né l’autore né l’attore hanno voce in capitolo. Entrambi potrebbero salvare il teatro. Debbono assistere impotenti agli enormi episodi che ogni anno nella nostra scena di prosa formano motivo di scandalo senza tuttavia raggiungere l’effetto che di solito hanno gi scandali: di far cambiare il sistema.

Non mi stancherò mai di chiedere: chi sono questi personaggi che dominano la povera vita teatrale italiana, che occupano il posto dei medici al capezzale del morente impedendo che siano prodigate le cure opportune e togliendogli il respiro? Perché essi debbono avere delle compagnie e compagnie non hanno invece alcune delle nostre grandi attrici, alcuni nostri grandi attori, qualche nostro grande regista, qualche nostro eccellente autore (un po’ di nomi fra i parecchi che potrebbero essere fatti e che potrei sempre fare: Sarah Ferrati, Salvo Randone, Ettore Giannini, Federico Zardi)?

Io contesto che i personaggi gonfiati dalla Direzione generale dello spettacolo e da un opinione pubblica fuorviata, e dalle stesse contrapposti agli autentici teatranti, abbiano una qualifica che legittimi la loro presenza – dico, la loro presenza, e non la loro autorità – sui palcoscenici italiani. Sono così sicuro del fatto mio, che li invito ad esibire i documenti. E’ questo un formale invito, mosso da un uomo che ha le carte in regola e a cui non si può negare la qualifica di autore (sta per uscire in questi giorni il terzo volume di più di 600 pagine delle mie commedie in lingua originale, mentre numerose traduzioni in varie lingue circolano per il mondo) o quella di attore (ho incominciato a recitare che avevo sette anni e ancora non mi sono fermato), o quella di capocomico (lo sono dal 1929 e da alcuni anni porto avanti non una ma due compagnie), o quella di impresario (ho costruito con i miei guadagni di autore, di capocomico, di attore e di regista, e gestisco direttamente, uno fra i più grandi e moderni teatri italiani), o quello di regista (altra professione nella quale credo di aver poco da imparare).

Ne sia certo onorevole Ministro: Lei sentirà forse delle parole, anzi delle parolone, in risposta a questa mia lettera, ma di documenti non ne vedrà neanche l’ombra.

Non abuserò oltre della sua pazienza. Desidero solo ripetere – perché mai come in questo caso ripetere è opportuno – che non ho parlato per me, che non mi aspetto da un mutamento di rotta, che mi auguro sollecito e radicale, nessun utile personale. Le cose che ho scritto a Lei sono le stesse che avrei potuto pubblicare dieci o dodici anni fa, quando non ero, come sono oggi, vicino al termine della mia carriera e completamente pago di quello che ho ricevuto dal mio pubblico e da quanti hanno seguito e seguono da studiosi la mia fatica. Egoisticamente mi sarebbe convenuto di continuare a tacere. Io non amo le discussioni e le polemiche, forse perché sono abituato a fare; e non mi nascondo nemmeno che, dopo tutto, non è mai un buon affare interrompere certi sonni beati.

Ma mi andavo chiedendo da tempo perché queste cose che ho scritto a Lei – che sebbene copiose potrebbero essere tante di più, e che tutti nel mondo del teatro sanno e ripetono con profonda amarezza – non vengono mai fuori nei convegni, nelle interviste, nelle inchieste, nei referendum. Non ho trovato niente altro che questa risposta: la paura. Una paura che forse io solo non avevo e non ho ragione di sentire. Ecco perché ho creduto che fosse mio dovere rompere il cerchio di silenzio e di omertà – reso più impenetrabile dalla confusione di idee e dei suggerimenti interessati – che impedisce a chi di ragione di orientarsi e di agire.

Mi creda onorevole Ministro, con i migliori e sinceri auguri di proficuo lavoro, e con i più rispettosi ossequi, il Suo

Eduardo De Filippo


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