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Lettera di un giornalista dopo il licenziamento di Antonio Leoni

Creato il 06 aprile 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

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Sì, che si tengano pure i Tartara (direttore di Mondo Padano ed ex vice di Emilio Fede, ndr) e gli Zanolli (direttore del giornale La Provincia di Cremona, ndr). Che se li tengano stretti fino a soffocarsi. Ma lo stato delle cose (cose che si imparano a proprie spese) è che Cremona ama i pezzi a mo’ di inservibili freccette con la ventosa al posto della punta. Se quello che Cremona vuole è questo, se lo tenga pure. E si tengano pure anche l’amianto smaltito illegalmente, le montagne di rifiuti abbandonati, esercenti e imprenditori strozzinati, i mafiosi (ma credete che siano quelli con la coppola? Aprite gli occhi e cominciate a guardare dietro certe scrivanie). E ancora le cooperative benedette dai signori di palazzo, i casini nelle bollette degli alloggi popolari, gli happy hour museali, i violini e le sviolinate a base di successi & ascolti, i frizzi i lazzi e gli intrallazzi.
“Terra verde di trifoglio e lucida di mais”? No, purtroppo. Quella era l’immagine che avevo da bambino, quando mio nonno mi portava a pesca sulle rive scintillanti del grande fiume, e riuscivo a guardare questo scempio con lo stesso filtro fiabesco con cui Calvino guardava le miserie della guerra. Ma da un pezzo ne ho un’altra d’immagine, decisamente più macabra: quella dell’aria immobile e stantia, odorosa di diossina e smog, nelle notti di fitta nebbia invernale o di soffocante afa estiva, quando ti soffi il naso e vedi il fazzoletto farsi nero di lordura. Questo è il pollaio in cui mi insegnano ad interagire con i miei simili. A stare nel gruppo. A non alzare la testa.
Da un lato spero che questa città, estasiata nello specchiarsi dentro al proprio splendido isolamento, svanisca pian piano nella nebbia dove ormai se ne sta relegata da decenni, da quando un signore che si chiamava Farinacci ha fatto piazza pulita di tutto ed è stato seguito da eredi che hanno continuato, in modo più dissimulato e “socialmente accettabile”, la sua becera politica. Da quando le generazioni dalla Guerra in poi l’hanno trasformata da vivaio di florida biodiversità culturale a misero pezzo “di diaspro e di diamante”, come l’immagine della terra “perfetta” evocata con spavento da Galileo nel Dialogo. Ma d’altra parte mi torna in mente proprio il mio Calvino, quello del finale delle Città Invisibili. « L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Questo è il finale (e, contemporaneamente, il punto di ri-partenza) più ottimistico che mi riesce di dare a questa triste e avvilente storia.

Uno che non conta niente e mai conterà

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