- Beatrice apostrofa Dante (disegno inedito di dhr)
Caro Primo,
a me il ragno ha sempre appassionato nella variante Spider-Man, ma a te intriga quello vero, un poʼ per la perfezione matematica della sua tela, un poʼ (per motivi identici e opposti) per la raffinata crudeltà delle sue abitudini sessuali e sociali, degne della letteratura noir. Oserei addirittura notare un briciolo di compiacimento lautrémontiano nelle tue descrizioni degli agguati, delle trappole, delle nefandezze perpetrate dai ragni, in particolare dalle femmine.
No, no, non stiamo a mettere di mezzo Freud… anche perché lo fai tu. Là infatti dove ti chiedi perché gli aracnidi appaiano così repellenti a molte persone, accampi tutta una serie di ipotesi, che poi ti diverti a smontare. I ragni fanno schifo perché hanno otto zampe e non sei? Ma no, a volte gliene manca qualcuna. O perché sono pelosi? Anche i visoni lo sono, eppure alle signore non fanno ribrezzo per nulla. Tra le varie ipotesi accampate, cʼè appunto quella psicanalitica.
Chi può fermare uno psicologo dell’inconscio nellʼesercizio delle sue funzioni? Hanno sparato sui ragni tutte le loro armi. La loro villosità avrebbe un significato sessuale, e il ribrezzo che proviamo rivelerebbe un nostro ignorato rifiuto del sesso: lo esprimiamo così, e in pari tempo così cerchiamo di liberarcene. La tecnica di cattura del ragno, che riveste di filamenti la preda impigliata nella tela, ne farebbe un simbolo materno…
… eccetera ecceterone. Non sorprende però che, alla fin fine, affermando che “cʼè forse anche altro”, avanzi la tua ipotesi personale: che la paura dei ragni sia un riflesso della paura della morte. Con quel loro modo di muoversi, con quelle atmosfere da incubo che le loro ragnatele creano nelle case. Non a caso, già, il tuo ultimo scritto in assoluto è stato il raccontino / intervista immaginaria Amori sulla tela.
Amore e morte, Eros e Thanatos. Dove però, come sempre nella tua arte sublime, la fascinazione freudiana si “sposa” allʼesattezza scientifica e allʼimmersione letteraria. E ci regali unʼaltra pagina da antologia.
Quanto alla mia personale e tenue fobia, essa ha un atto di nascita. È lʼincisione di Gustavo Doré che illustra Aracne nel canto XII del Purgatorio, con cui sono venuto a collisione da bambino. La fanciulla che aveva osato sfidare Minerva nellʼarte del tessere è punita con una trasfigurazione immonda: nel disegno è “già mezza ragna”, ed è genialmente rappresentata stravolta, coi seni prosperosi dove ci si aspetterebbe di vedere la schiena, e dalla schiena le sono spuntate sei zampe nodose, pelose, dolorose: sei, che con le braccia umane che si torcono disperate fanno otto. In ginocchio davanti al nuovo mostro, Dante sembra ne stia contemplando gli inguini, mezzo disgustato, mezzo voyeur.
Deve aver pensato qualcosa del genere anche Salvador Dalí, che nella sua rielaborazione della Aracne di Doré ha mostrato Dante mentre “volta le spalle” alla donna-ragna-mantide, e abbraccia teneramente Virgilio. Come la psiche dello stesso Dalí, che a volte fuggiva dalle grinfie della amante-padrona Gala per cullarsi nel dolce ricordo di Federico García Lorca.
Tuo d