Magazine Diario personale

Letting go: la verità è che non sono d’accordo

Da Maddalena_pr

CONSIDERAZIONI SULLA SCUOLA-NATURA A 4-5 ANNI

Letting go: la verità è che non sono d’accordoE poi, mentre pedalo sulla mia stupida cyclette, cominciano a riaffiorare i ricordi. Al di là delle emozioni di cui già ho detto, riemergono tutte le considerazioni che maturai quando Patrick era stato a Malcesine con l’asilo per cinque giorni e cinque notti.

“La prima sera è la più critica: se uno piange lo consoliamo, poi se vediamo che tutta la notte va avanti e non riusciamo a calmarlo, chiamiamo i suoi, che lo vengono a riprendere.”
Questa è una delle affermazioni che ricevetti. Non so come, ma non mi dava affatto conforto. Dicevano che non succedeva quasi mai, comunque. “Comunque”.
Ma c’è qualche ragione per la quale devo mandare mio figlio via così a lungo e così piccolo nel mezzo dell’anno? Capisco le colonie, i campi estivi, mandarlo all’aria aperta, a divertirsi mentre non ci si può occupare di lui, le scuole sono chiuse, i genitori lavorano. Allora si fa un bilancio tra costi e benefici, o si decreta per gioco forza. Ma in questo caso mi sfugge la motivazione intrinseca.

“Piange ma poi gli passa, è un’esperienza che aiuta a crescere.”
Ma è davvero necessario?
Perfino mia sorella, residente fissa in terra norvegese, dove la mentalità è decisamente più aperta, si stupì: “Cinque giorni via? No, qui al massimo una notte, a quell’età.”
Siamo il paese delle contraddizioni: contiamo due ore prima che il piccolo possa pucciare i piedi nel mare dopo un sandwich, lo rincorriamo con inutili ed estenuanti premure, allacciati la giacca, no che poi cadi, no che poi sudi, guarda che ti ammali. E poi lo mandiamo in vacanza 5 giorni con la classe dell’asilo.

“Ma poi si diverte.”
I bambini sono pieni di risorse, si adattano, hanno una forza vitale incredibile. Certo che, in un modo o nell’altro, ce la fanno. Ma vale la pena rischiare che pianga, che soffra, che gli manchi la famiglia, perché “poi si diverte”?
Ci sono mille modi di divertirsi, c’è tutto il tempo. Avrà mille occasioni. È davvero necessario spingerli così presto? Perché io, a volte, ho l’impressione che si abbia fretta: di farli crescere, di renderli autonomi, di staccarli. Poi però ce li terremo da bravi italiani in casa fino ai 40 anni.

“Non puoi chiamare direttamente tuo figlio, se no non si stacca da te.”
L’hai già detto tu stesso, allora: c’è bisogno di questi espedienti, perché la verità è che non è pronto, che forzi i tempi. Non si può aspettare che si stacchi di suo?

“Vi terremo informati.”
Questa era la parte peggiore: non è come mandare il figlio coi nonni. Se mandi il tuo bambino coi nonni lo chiami, lo senti, gli parli. Quello che sai e che apprendi riguarda lui, lui in particolare. Il vostro rapporto rimane, mentre fa una nuova esperienza.
Qui invece tuo figlio è uno tra tanti. Le notizie che ti arrivano riguardano il gruppo, cos’hanno fatto o non fatto, quale luogo hanno visto, quale museo visitato. Non puoi sentirlo direttamente al telefono. Nessuno può raccontarti il suo sorriso, le cose specifiche che ha fatto oggi, quello che ha detto ieri, che scoprirà domani.
Bisogna dimenticarsi l’uno dell’altro, perché funzioni.

Non è la mia fragilità. Né, forse, quella di Sarah. La vera perplessità è sul senso di questa cosa: giustificare tutto perché “comunque è una bella esperienza”?


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