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Pubblichiamo l’articolo di Alessandro Rosina, comparso questa settimana su “Il Fatto Quotidiano”: in questo articolo Rosina smonta un luogo comune, relativo ai giovani italiani “colpevoli” di essere disoccupati. Un mito totalmente inventato da una certa e supposta “classe dirigente”, che cerca così -disperatamente- di sfuggire alle proprie colpe. E ai propri fallimenti.
Grazie a Blue M per la segnalazione. Buona Pasqua a tutti!
Per chi usa il cervello qui non c’è posto
Le fregature per le nuove generazioni italiane vanno a stagioni. C’è stata quella dell’enorme debito pubblico creato nel corso degli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta. É seguita la stagione della riforma generazionalmente squilibrata delle pensioni. Poi la riforma del mercato del lavoro senza adeguamento del sistema di welfare pubblico, che anziché flessibilità ha introdotto precarietà.
Siamo diventati uno dei paesi industrializzati che meno crescono e meno offrono spazio e opportunità per i giovani.
Il dato Eurostat più fresco ci vede fanalino di coda in Europa in termini di occupazione degli under 30. Colpa dei giovani o di scelte pubbliche sbagliate? Ecco allora che oggi avanza il nuovo inganno. Si fa sempre più strada nella nostra (matura) classe dirigente la convinzione che il problema risieda in una distorsione di fondo propria delle nuove generazioni. Che a sostenerlo sia chi nel governo ha responsabilità sui temi dell’economia e del lavoro non meraviglia. È evidente da tempo che la principale preoccupazione di costoro è tutelare l’esistente. Ma l’idea che siano i giovani ad avere ambizioni e attese mal calibrate va ben oltre il governo e i suoi sostenitori. Cosa dovrebbero allora fare le nuove generazioni secondo questa sempre più diffusa linea di pensiero? Accontentarsi di quello che trovano, compresi i lavori più umili che sinora si son lasciati fessamente sfilare sotto il naso dagli immigrati.
E se il problema vero, invece, fosse questa classe dirigente e i limiti del modello di sviluppo che ha imposto al Paese? Possiamo pensare alla condizione dei giovani come a quella di chi entra in un ristorante ritenuto almeno di media qualità e si trova invece con un’offerta di cibo mediocre. Ecco però che con incredibile faccia tosta il cuoco, anziché chieder scusa e impegnarsi a rimediare, si mette ad accusare i clienti di essere troppo schizzinosi ed esigenti. Il problema, insomma, starebbe nel fatto che i clienti vogliono mangiar bene. Ma i giovani non sono fessi e la controprova la trovano quando vanno all’estero. Cambiando ristorante capiscono che il problema non sono loro e che, anzi, altrove i loro gusti sono tanto più apprezzati quanto più sono raffinati. Come mai qui in Italia il capitale umano delle nuove generazioni non vale nulla e nelle altre economie avanzate è invece valorizzato? E’ questa la domanda cruciale.
I dati sono impietosi. Da fonte Eurostat apprendiamo che l’Italia risulta essere uno dei Paesi con minor crescita delle professioni più qualificate, intellettuali e dirigenziali. Secondo l’Istat, poi, sono oltre un milione gli under 30 che svolgono un lavoro sottoinquadrato, accontentandosi di una occupazione che richiede un titolo di studio inferiore a quello acquisito.
Come mai ci troviamo in questa situazione? I motivi sono molti. Ma una delle maggiori conferme dell’incapacità italiana di riorientare l’uso delle risorse a favore di un maggiore e migliore contributo dei giovani alla crescita del paese, la si può trovare nel basso investimento in ricerca e sviluppo. A questa voce noi destiniamo il 50 per cento in meno rispetto alla media europea. Siamo lontani anni luce dalla Germania che pur è attenta anche alla formazione tecnica.
L’innovazione è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e innovativi. Qui le nuove generazioni possono diventare una risorsa strategica per la crescita. Negli ultimi anni persino il Rwanda ci ha superati nella classifica globale sulla facilità di fare impresa stilata dalla Banca Mondiale. Eppure l’Italia le potenzialità le ha. Non mancano certo i talenti, quello di cui difettiamo strutturalmente è la loro valorizzazione.
Dato però che chi guida il Paese non sa come valorizzarli allora basta con l’uso dei cervelli, concentriamoci su quello che si può fare con le mani. L’alternativa, forse, è cambiare chi guida. Nel frattempo chi vuole usare il cervello vada all’estero, per gli altri qui ancora c’è posto.
ALESSANDRO ROSINA
*professore Associato di Demografia all’Università Cattolica di Milano
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