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letture in carcere

Creato il 31 maggio 2013 da Gaia

Oggi sono stata in carcere per parlare del mio romanzo, La fuga e l’addio, e della mia scrittura in generale. È successo perché Maurizio Battistutta, dell’associazione Icaro e garante dei detenuti a Udine, ha letto il mio libro e mi ha invitato a presentarlo in uno degli eventi che organizza nella casa circondariale, a cui partecipano scrittori più o meno famosi oppure solo detenuti che hanno voglia di discutere un libro in gruppo.
Non vedevo l’ora di raccontarvi come sarebbe andata ma la verità è che non è successo niente di strano. A me è piaciuto tantissimo: ero seduta in cerchio con una dozzina di persone diverse per età e provenienza, e rispondevo a domande sul perché scrivo, che significato hanno i titoli che ho scelto, cosa spero di lasciare a chi legge, cosa penso dei miei coetanei, cosa voglio fare nella vita, cose così. Uno aveva addirittura commissionato una ricerca su di me. Un uomo mi ha chiesto cosa mi aspettavo venendo in carcere e un altro mi ha chiesto che effetto mi ha fatto. A me sembrava tutto normale, ma quando quest’ultimo ha detto che a lui faceva impressione, all’inizio, sentire chiudere la porta con due giri di chiave, ho detto che quelle porte facevano impressione anche a me. Sono grosse grate che si aprono con le chiavi enormi come nei film. Per spostarti da uno spazio all’altro devi aspettare che ti aprano e ci sono guardie a ogni porta. Questo stesso uomo, quello della porta che si chiude, mi ha detto: “sembra strano visto che non facciamo niente tutto il giorno, ma la nostra testa è sempre piena di pensieri. Soprattutto se sei padre.” Lui ha detto che stare lì dentro è stata un’occasione per riflettere sulla sua vita. Ma non per tutti è così. Un altro ragazzo ha detto: “quando lo fai sai cosa può succedere, succede, non ha senso tanto pensarci.” Questo è interessante: per alcuni il carcere è un rischio lavorativo come un altro. Magari non vorrebbero che fosse così, ma si sentono di non avere alternative, non lo so.
Il mio accompagnatore è molto critico nei confronti dell’istituzione del carcere, e anch’io lo sono: penso sia una finta soluzione che in realtà non risolve niente. Non sono in grado di fare un discorso approfondito sul tema, ma grazie a un lavoro fatto da mia sorella sull’abolizionismo ho iniziato a chiedermi sempre di più: perché incarceriamo le persone? Cosa speriamo di ottenere? Quello che vogliamo ottenere, succede davvero? Il carcere è un grande inganno del nostro tempo: io non penso che vada abolito, ma sicuramente ridotto ai casi in cui veramente serve a proteggere la società da persone effettivamente pericolose. Per tutto il resto bisogna trovare soluzioni alternative, sapendo che per certe cose una vera soluzione non esiste. Né la vendetta, né il perdono, né la retribuzione, né la pena: quello che hai perso nessuno può ridartelo ed è difficile creare una coscienza per chi non ce l’ha. A qualcuno in carcere viene da riflettere, per fortuna, ma a tanti altri no. È proprio perché le persone sono diverse che la stessa cosa non va bene per tutti, ma capire cosa sarebbe adatto a ognuno è impossibile.
Comunque, tornando all’evento di oggi, io non sapevo cosa aspettarmi e in effetti avevo ragione: le persone con cui ho parlato oggi non avevano nessuna caratteristica particolare, se non quella, appunto, di essere finite ‘di là’. C’era il signore distinto, l’immigrato che non sapeva benissimo l’italiano ma voleva partecipare, il padre di famiglia, le prese in giro affettuose, le lamentele, cose così. La guardia che era con noi sembrava, a detta del mio accompagnatore e per come si comportava, non severo e più aperto di altri, ed era effettivamente molto gentile – ma chissà cosa succede quando nessuno vede. Mi è sembrato che molti dei presenti fossero del Sud, ma mi è stato detto che non era vero, e allora ho capito che erano solo quelli che parlavano di più. Erano educatissimi e facevano un sacco di domande interessanti. Ad un certo punto uno ha letto una mia poesia e io sono diventata tutta rossa. Alla fine volevano una dedica sui miei libri e mi hanno tutti salutato entusiasti. Uno aveva addirittura il mio stesso medico, se n’è accorto leggendo i ringraziamenti. È stato bello, proprio bello. Uscendo ho chiesto a un’insegnante che lavora lì dentro se sapeva ‘cos’avevano fatto’ e lei ha detto che preferisce non saperlo, per non sentirsi prevenuta. In effetti c’è sempre questa questione, ma più in generale, nella vita: per uno sei una persona che gli ha fatto un torto, per un altro sei uno sconosciuto, magari uno sconosciuto simpatico. È importante cos’hanno fatto, o no? Se avessi una risposta definitiva sulla colpa e sull’innocenza, non scriverei romanzi ma trattati di filosofia.


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