L’intero articolo di Alberto Burgio, La solitudine del lavoro, si legge qui
Vantiamo il record della disoccupazione (soprattutto giovanile e femminile, soprattutto nel Mezzogiorno) e della pressione fiscale sul lavoro dipendente; dell’evasione e dell’elusione fiscale (con annessa esportazione illegale di capitali all’estero); il record dei bassi salari e dei bassi investimenti in formazione, ricerca tecnologica e sviluppo; il record delle ore di lavoro pro capite e del più basso tasso di utilizzo degli impianti; il record dei trasferimenti pubblici a fondo perduto a beneficio dei privati (metà della capitalizzazione della Fiat è costituita da capitale pubblico), delle privatizzazioni e delle delocalizzazioni; il record della precarietà del lavoro (anche grazie alle 46 fattispecie contrattuali e all’articolo 8) e delle disuguaglianze; dell’immobilità e dell’ingiustizia sociale; della gerontocrazia e della trasmissione ereditaria delle posizioni patrimoniali e sociali; il record della corruzione, quello dell’incidenza delle mafie sul governo del territorio (sempre più dissestato e inquinato), delle istituzioni e dell’economia, e quello della quota di reddito bruciata nel gioco d’azzardo. E via annoverando.
Un elenco così, disordinato, può dare l’idea di un’accozzaglia casuale. Ma, a suo modo, quello italiano è un modello coerente. Che cos’è un paese in cui l’ambito pubblico va in rovina mentre il privato prospera a sue spese (in Italia il debito privato, di famiglie e imprese, si attesta sul 42% del Pil contro il 51 della Francia, il 63 della Germania e il 103 del Regno Unito)? Che cos’è un paese che manda in malora (o svende) la propria industria e sacrifica le proprie migliori risorse umane e materiali (taglieggiando i redditi da lavoro e riducendo la base occupata senza uno straccio di politica industriale) pur di remunerare il capitale privato a dispetto del suo mancato concorso allo sviluppo dell’apparato produttivo nazionale? Che cos’è un paese siffatto e che cos’è la classe dirigente che ne compromette in tal modo le sorti?
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Il debito italiano comincia a crescere dai primi anni Ottanta e si decuplica tra il 1981 e il ’95 (passando dal 58 al 121% del Pil). Ma questo non deriva, come si continua a dire, da un presunto eccesso di spesa pubblica, bensì dalla decisione (di governi e Banca d’Italia) di finanziare la spesa ricorrendo al meccanismo dell’indebitamento invece che alla leva fiscale. L’esplosione del debito pubblico si deve all’aumento esponenziale della spesa per interessi, che, crescendo su se stessa, ha comportato in questi trent’anni un esborso di 2141 miliardi di euro, di gran lunga superiore all’ammontare dell’intero debito. Il che spiega perché – come ricordavo in precedenza – in Italia si registri, a fronte di uno Stato superindebitato, il più basso indebitamento privato. In questo senso accodarsi alle giaculatorie sul debito pubblico, invece di puntare il dito sull’iniquità delle politiche fiscali e sulla scandalosa ineguaglianza che la crisi sta esasperando, significa soltanto dare man forte alle politiche antisociali praticate dai governi con l’alibi della crisi.
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Sarebbe futilmente provocatorio sostenere che oggi nel nostro paese la libertà di informazione e di opinione si trova in condizioni analoghe, o addirittura peggiori, che sotto il fascismo. Evitiamo qualsiasi paragone, anche se non va dimenticato che la classifica della libertà di stampa nel mondo pone l’Italia al 57mo posto, dopo Capo Verde, Papuasia, Botswana e Niger. Il fatto su cui non si può comunque sorvolare è che, complice un sistema mediatico (pubblico e privato) saldamente presidiato, al grosso della popolazione è preclusa la possibilità di comprendere la realtà nella quale ci troviamo: di capire come mai paesi ricchi si dibattano in una crisi che semina miseria e disperazione, di spiegarsi come mai gli straordinari progressi della produttività complessiva del sistema sociale si traduca non in miglioramenti della qualità della vita ma, per moltissimi, in disoccupazione, povertà e insicurezza.
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Non c’è una censura centralizzata, imposta dall’autorità politica, ma il risultato non è diverso (in questo senso tanti anni fa Bertolt Brecht parlò di «fascismo democratico»). Il fatto che in televisione e sui maggiori giornali l’interpretazione della crisi sia sistematicamente affidata a economisti politicamente corretti (seguaci della teoria neoclassica o, per dirla in gergo, «bocconiani») non è casuale né privo di effetti.