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LETTURE PER POETI (13)Quel che resta di Auschwitz

Da Ennioabate
LETTURE PER POETI (13)Quel che resta di AuschwitzPubblico, riprendendolo da "Sinistra in rete", cinque stralci di un saggio di Isabella Adinolfi (qui il testo completo) sul libro di Giorgio Agamben, "Quel che resta di Auschwitz" (Bollati Boringhieri 1998). Sia per un eventuale confronto col testo di Fortini contro la tesi dell'unicità della Shoah (qui). Sia come "promemoria" complementare alla discussione in corso Sulla grandezza di Dante (e di Mandel'štam). I titoli e le sottolineature degli stralci sono miei. [E.A.]

Auschwitz - osserva ancora lo studioso - rappresenta il luogo di un esperimento ancora impensato: tutti i metalli dell'etica tradizionale raggiungono il loro punto di fusione in quella che Levi ha designato come "zona grigia", un'incessante alchimia dove l'oppresso diventa l'oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima (p. 19).

"Al di qua del bene e del male" si svolge la vita del campo e non soltanto quella degli aguzzini e oppressori, nonostante la loro pretesa di porsi "al di là del bene e del male", ma anche degli oppressi, delle vittime, di cui Primo, Levi nei due libri che raccontano la sua prigionia ad Auschwitz-Monowitz, non esita a registrare la completa perdita di quella dimensione umana e spirituale, su cui le categorie etiche propriamente poggiano e si fondano. La dimensione dell'uomo che sta alla base dell'etica, che ne è, per così dire, la condizione e la rende possibile, è infatti quella di un essere capace di trascendere la pura naturalità, la pura immediatezza. E' quella di un soggetto libero. Solo in quanto eccede la dimensione propriamente naturale, fisiologica, l'uomo è soggetto morale. La legge morale è infatti in contrasto con la legge che regna sovrana in natura, con l'elementare legge del più forte. Ma è la legge naturale del dominio, della sopraffazione da una parte e dall'altra della conservazione di sé, la legge della sopravvivenza ad ogni costo, quella che regna nel campo.

In quella gigantesca "esperienza biologica e sociale" che il Lager rappresenta - scrive Levi - "esistono fra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse" (Se questo è un uomo, La Biblioteca di Repubblica, Torino 1958-2002, p. 94). Così muore lo spirito e, con esso l'etica, ad Auschwitz. Scrive Agamben "Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare - anche ciò che non avrebbe voluto o dovuto sopportare" (p. 71)

2. Chi può testimoniare su Auschwitz ( e gli altri campi di sterminio)?

Ma è in particolare il sommerso ad attrarre l'attenzione dello studioso [: Agamben]. Vediamo per quali motivi. Il libro si pone innanzitutto il problema della testimonianza. Chi è il testimone? Chi può testimoniare, fino in fondo, quanto è accaduto nei campi e nei centri di sterminio? La risposta di Agamben è che il vero testimone, il "testimone integrale", come Levi lo chiama, non è il superstite, colui che, secondo le parole di Levi, "per prevaricazione, abilità o fortuna" non ha toccato il fondo, ma il "sommerso", chi "ha visto la testa della Gorgona". Ovvero, come lo si chiama nel gergo del campo, il musulmano. Le testimonianze che possediamo, essendo testimonianze di superstiti, presentano dunque tutte una "lacuna", in quanto il testimone vero, il testimone integrale non può deporre, perché o "non è tornato per raccontare" la sua esperienza o è tornato "muto". La testimonianza del sopravvissuto è dunque "un discorso per conto di terzi", un parlare in "loro vece", "per delega". Ma - osserva Agamben - parlare di delega non ha senso: i sommersi non hanno nulla da dire, non hanno storia, né volto, né pensiero. La Shoah è pertanto "un evento senza testimoni".

3. La figura del "musulmano"

Chi è il musulmano? Secondo la rappresentazione e definizione che ne hanno dato testimoni quali Levi, Wiesel, Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani, erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l'umano e il non umano: non erano - sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo - né veramente vivi, né ancora morti, né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini.

Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell'indicare questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come "perdita di coscienza, di consapevolezza", come il venir meno "della volontà di vivere", come "ripiegamento" e chiusura su se stessi. Nella "situazione estrema", nell'"esperienza limite" del campo, il musulmano, secondo Bettelheim, è colui che "non resta un essere umano", colui che non riesce a rimanere uomo.

C'è, secondo quest'autore [Bruno Bettelheim], "un punto di non-ritorno", una sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all'ultimo margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora l'uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e talora anche fisicamente. La conclusione di Bettelheim ha come presupposto, che l'umano, il propriamente umano sia lo spirituale, l'etico, ma è proprio questo presupposto che Agamben vuole mettere in dubbio, in questione con la sua riflessione su Auschwitz. Il musulmano, secondo l'autore, rende relativa l'opposizione più consolidata del nostro pensiero, quella tra umano e non umano. Per lui, il musulmano non deve essere escluso dall'umano: ha perduto ogni dignità e rispetto di sé, ma rimane un uomo. La "nuova terra etica" è dunque proprio il musulmano, per cui occorre cercare un'etica nuova, che inizi dove finiscono rispetto e dignità, dove si estingue lo spirito, dove finisce, cioè, l'etica tradizionale. Alla luce dell'esperienza estrema del campo, al cospetto del musulmano, di colui che, pur ridotto alla nuda vita biologica, rimane ancora un uomo, l'etica tradizionale, del resto, con le sue idee di rispetto di sé, dignità, decenza, contegno, buone maniere, educazione, appare solo un' "inutile commedia", una "finzione", che ci fa sorridere

4. "Intellettuale a Auschwitz"

Jean Amèry ha descritto molto bene lo scandalo dell'intellettuale, dell'uomo di spirito, avvezzo alla riflessione morale, posto a confronto con l'assurda esperienza del Lager, che gli si presenta in "stridente contrasto con tutto ciò che sino allora egli aveva considerato possibile e accettabile dall'uomo" (J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, Torino 1987, p. 40). Essa gli appare sconcertante, incomprensibile perché immorale e, viceversa, immorale e inaccettabile perché assurda. "All'inizio - scrive - per lui valeva una sorta di folle saggezza ribellistica secondo la quale certamente non può esistere ciò che non è lecito che esista" (ivi, p. 41).

All'amaro stupore e sconcerto, agli scongiuri di rito, del tipo: "non può essere", spesso, però, poi seguiva nell'anima dell'intellettuale, una volta costretto a riconoscere come "possa esistere ciò che non deve esistere", con il crollo della sua prima resistenza interiore, un mettere in questione e poi un rifiuto dei valori morali: "Sì, se le SS potevano agire come agivano: non esiste alcun diritto naturale e le categorie morali vanno e vengono come le mode" (ibidem).

5. Il limite e il merito del testimone

Ma torniamo alla questione centrale. Levi, lo ricordo, scrive : "Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri [...], sono loro, i "musulmani" i testimoni integrali; ma chi ha visto la Gorgona, chi ha toccato il fondo, non è tornato per raccontare, o è tornato muto. Sono loro la regola, noi l'eccezione. Noi, toccati dalla sorte, abbiamo cercato [...] di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per "conto terzi", il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio". La testimonianza, commenta Agamben, tirando le conclusioni, costituisce allora un processo assai complesso che coinvolge almeno due soggetti: il primo, il superstite, che può parlare ma che non ha niente d'interessante da dire, e il secondo, colui che ha toccato il fondo, e ha perciò molto da dire ma non può parlare. Pertanto conclude Agamben occorre intendere la testimonianza come un atto di autore (p. 140), che implica e comporta sempre una dualità essenziale, e che consiste nel portare a compimento, integrare, perfezionare un'insufficienza, un'incapacità di testimoniare. Il soggetto etico è dunque - scrive lo studioso - quel soggetto che testimonia di una desoggettivazione (p. 141).

Etico è testimoniare per colui che non può testimoniare, integrare e compiere ciò che altrimenti resterebbe incompiuto.


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