Ho poche cose da scrivere, ultimamente, e molte da leggere. Sto preparando la scaletta per un banchetto. Ma non un banchetto qualunque. A Mantova, al FestivaLetteratura, Salone del Lutto porterà infatti Huysmans, che in à Rebours (Controcorrente o A ritroso, a seconda delle traduzioni) descrive un “banchetto funebre per cose futili“.
Eccomi allora alla ricerca di brani per condire il tutto, di autori da accostargli, di probabili altri convitati. Ed ecco che mi imbatto in Luciano Bianciardi, bibliotecario, professore di liceo, giornalista, traduttore, sceneggiatore, scrittore illuminato. E grandissimo lettore (una cosa che nelle biografie da quarta di copertina non emerge mai, perché le azioni “passive” alle quarte di copertina non piacciono troppo… Vuoi mettere lo scrivere contro il leggere?). Mi imbatto in La vita agra, un romanzo splendido del 1962. E sulla morte ci trovo alcuni passi magnifici, che hanno la tempra di una scrittura altissima, difficile da incasellare e la grazia di un’ironia acutissima. Mi limito a riportarli qui. Perché, a tratti, questo blog si limiterà a trasmettere, a costruire il canovaccio di un banchetto. Quel che vedrà, chi ci sarà, il 7 settembre a Mantova.
Il primo brano che scelgo è dedicato a pensieri misti sull’agonia, la morte come beffa a chi resta, i pensieri sulle complicanze di una cerimonia (“camera moribondaria”, che invenzione magnifica) e le volontà da manifestare prima, perché, se sei laico, se della religione non t’importa nulla, se la chiesa ti ribrezza non è bello pensare di avere, dopo morto, la casa piena di preti che si battagliano la tua anima…
“Io, lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura, specialmente quando dura anni, e ti mozza il lavoro, e tu stai male, avresti bisogno di riposarti e di guarire, e invece continuano a tafanarti i padroni di casa, i letturisti della luce, Mara con la comunione e le palline del bimbo, le tasse, i rappresentanti di commercio, i datori di lavoro, i medici, i farmacisti, le cambiali, gli esattori dell’abbigliamento. L’agonia continua finché a costoro sembra che ci sia il modo di levarti di corpo qualcosa ancora, e fino a che tu abbia la forza di continuare. Poi lasciano che tu muoia.
È per questo che il viso dell’agonizzante ci si mostra sempre così terreo e stravolto: sta lottando, non contro la morte ma contro la vita, perché pensa e si arrabatta per trovare i soldi per pagare il prossimo. Poi, appena morto, lo vedrete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora – così par che dica – arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio. Pagateli voi, i conti, e non i vostri soltanto, ma anche i miei, per la cassa, il trasporto, la buca al cimitero. E sorride.
Anzi, mi ha spiegato un amico mio di Roma (ciò che di solito viene nascosto ai più perché, dicono, la morte è solenne e va rispettata e certe cose è meglio non raccontarle in giro) m’ha spiegato questo amico mio di Roma che un sei sette ore dopo la morte c’è la defecatio post mortem, cioè a dire il morto, quando è morto davvero, se fa ‘na bella cagata, nel letto, in modo da cominciare a puzzare prima ancora che si sia avviata la normale putrefazione. E sorride, perché quella evacuazione non è per niente automatica e inconsapevole, secondo me. Il morto lo sa, di andare contro tutte le regole del ben vivere, si sta beffando dei congiunti, degli amici, delle pie donne. È la sua prima vendetta contro il prossimo.
Poi c’è ben altro, perché arrivano i preti. Non si sono mai visti sin allora, né a farti pentire dei tuoi peccati, né a consolarti delle tue pene, ma appena sei morto arrivano perché a loro preme la tua anima, e nel bilancio della loro carriera conta il numero delle anime salvate appena morto il corpo.
E i tuoi congiunti laici anche col prete se la debbono vedere, gli devono spiegare che tu sei sempre stato libero pensatore, miscredente e bestemmiatore, e che quindi non vuoi né la benedizione né il crocione davanti al carro né gli orfanelli dietro. E loro invece eccoli lì a discutere, ostinati e tenaci come in vita eran stati con te i venditori di ogni livello.
Loro appunto voglion venderti l’ufficio funebre, ma non sta a te rintuzzarli: tocca ai congiunti, agli amici, alle pie donne. Tocca a loro, insieme al dolore della dipartita, e ai soldi da pagare e ai pensieri per la traslazione della salma, anche quest’altra grana di far fronte alla pietà cristiana.
E tu stai lì tranquillo, senza sentire niente, senza sentire niente, senza dover fare niente, perché ormai tocca tutto agli altri. Ecco perché sorridi. La mia paura, quando penso alla morte, semmai è un’altra.
Io li ho visti come sono fatti, gli ascensori di casa mia, il padronale e quello di servizio. Le porticine le hanno studiate apposta perché non ci entrino carichi ingombranti. Uno e novanta di altezza, ottanta di larghezza, e io l’ho controllato, una cassa da morto non ci va, comunque tu la rigiri. E nemmeno c’è da pensare che riescano a portarla a spalla giù per le scale, perché le scale sono a rampa stretta, per risparmiare spazio, e a tetto basso.
Così io non ho ancora capito come fanno a portare giù il morto incassato, quando c’è un lutto ai piani alti di via Meneghino 2, il mio indirizzo. In ascensore non lo portano di certo, perché le misure sono quelle, e nemmeno per le scale. Quindi o calano la bara dalla finestra con il paranco, oppure giù negli scantinati ci dev’essere una camera – come dire? – moribondaria, e lì portano i malati senza più speranza, con un cappotto buttato sulle spalle, sopra al camicione da notte, per farceli morire e poi averli comodi a piano di strada per quando arriva il carro.
A me dispiacerebbe morire negli scantinati, in quel tanfo di nafta e di gatto, magari senza nemmeno un letto per farci la defecatio post mortem, e attendere legato a una sedia, a occhi chiusi, scomodo, che arrivino i becchini. Voglio morire tranquillo. E voglio anche un funerale solenne.
Ho già scritto nel testamento chi ci voglio, a marciare da casa mia fino al cimitero, quando mi toccherà. Perché disapprovo quel che vedo fare dagli altri in questi casi, cioè non mi va il furgone automobile con le colonnine e i drappeggi neri, progettato non so da chi, metà per il morto davanti e metà per i congiunti dietro, tutti sulla stessa vettura, e la targhetta che precisa: – Posti sei per i dolenti –. Sei appena, gli altri hanno due o tre autobus, per seguire a corsa il feretro nel traffico astioso della città, e portare velocemente le corone al camposanto.
No, io voglio un funerale all’antica, e l’ho scritto nel testamento, un funerale laico, ma d’una certa solennità. Laico, ma tradizionale. Non ci voglio i preti, ma gli ex preti ce li voglio, ci voglio quelli che hanno buttato la tonaca alle ortiche e si sono fatti comunisti, pur restando preti nell’animo. Ne voglio quattro, di questi preti spretati e togliattizzati, e poi voglio due cavalli neri col pennacchio in capo, due critici letterari a cassetta, ai quattro cordoni del carro ci voglio nell’ordine uno storico, un critico d’arte, un funzionario di casa editrice e un redattore di terza pagina.
Deve essere un bel funerale. Dietro venga chi voglia, tranne le segretariette secche. Loro no. Poi si scordino pure di me, ma il funerale lo esigo bello, solenne e, come ho detto sopra, laico. Perché troppi amici ho visto morire malamente, e peggio ancora essere accompagnati al camposanto”.
Il secondo, invece, è una grande ipotesi sulla morte perfetta e sulla consunzione della civiltà. Nel coito. In un ultimo grande amplesso.
“Lo so, finirebbe anche la civiltà moderna perché il coito veridico non è spinta ad alcunché ma si esaurisce in se medesimo e, in ipotesi estrema, esaurisce chi lo compie.
Provate questa sorta di predicazione e avrete ogni anno coppie estinte per consunzione da eccesso di coito. Lo so bene. Ma i casi mortali sarebbero sempre meno d’un decimo di quelli oggi provocati dai doppi sorpassi in terza corsia, o dallo smog, o dalle malattie cardiocircolatorie.
E non sarebbe forse una bella morte? Gli amanti così periti avrebbero onori distinti, e sulle loro tombe, erette nei parchi cittadini e nei campi da gioco dei bimbi, altri amanti andrebbero a giurarsi fedeltà eterna.
E poi ogni anno, al volgere della primavera, ogni villaggio sceglierebbe il suo bel prato, e lì s’intratterrebbero, da stelle a stelle, due trecento coppie di copulanti, sullo sfondo del cielo terso, durando lo strillare delle cicale, ma senza ventilazione di ninfe biancovelate, con accompagnamento dei cori che vanno eterni dalla terra al cielo, e in un angolo, gialla, ferma, inattiva, una macchina trebbiatrice della premiata ditta Cosimini di Grosseto.
Lo so, finirebbe la civiltà moderna, cesserebbe ogni incentivo alla produzione di beni di consumo, essendo dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole; cesserebbe anche l’insorgere dei bisogni artificiali, nessuno vorrebbe più comprarsi l’auto, la pelliccia, le sigarette, i libri, i liquori, le droghe, e nemmeno giocare a biliardo, vedere la partita di calcio, discutere sul Gattopardo.
Unico grande bisogno sarebbe quello di accoppiarsi, di scoprire le centosettantacinque possibilità di incastro realizzabili fra l’uomo e la donna, e inventarne ancora. Unirsi in piedi, seduti, supini, bocconi, inginocchiati, accoccolati, a caposotto. Eseguire la penetrazione vaginale, rettale, orale, scritta, telegrafata, intramammillare, subascellare, praticare l’irrumazione, la fellazione, la podicazione, il cunnilingio, e il symplegma trium copulatorum.
Unirsi sui letti, dentro gli armadi, alla finestra guardando chi passa, nei prati di periferia e nella pineta di Tirrenia, sopra un moscone al largo della costa adriatica, abbandonati al ritmo delle onde e delle correnti, anche a rischio di toccare l’orgasmo già in acque territoriali jugoslave; negli scompartimenti di seconda sulla linea di Sarzana, al cinema dietro le tende delle uscite di sicurezza, per le scale di casa (coi piedi su due gradini diversi, ove trattisi di donne zoppe, neanch’esse escluse dai festeggiamenti), dentro le cabine degli ascensori, nei capanni della spiaggia di Rimini, in acque salse poco oltre la battigia e frammezzo ai bagnanti, sul piedistallo delle statue di Pomona, nei palchetti della Scala recubando sulla pelliccia pagata dal Bubù; nei vomitoria dell’Arena di Verona, fra le rovine della cittadella di Pisa, e finalmente sulla poltrona padronale del padrone Timber Jack, lasciandovi a dispetto e a prova i segni d’una eiaculazione ritardatissima.
Poche persone hanno sinora inteso queste cose: Abelardo, il Molinari Enrico di New York, la mezzalla Cherubillo e io“.
Adoro Bianciardi. Vi invito a leggerlo avidamente, se non l’avete già fatto. Lui al nostro banchetto ci sarà. E qui c’è lui: http://www.youtube.com/watch?v=rsCIVA-WR9o
Brani tratti da La vita agra di Luciano Bianciardi, Feltrinelli 2013 (ed. or. 1962); selezione di @si_ceriani
Per maggiori informazioni o per iscriverti all’evento: https://www.facebook.com/events/404441249662017/ o [email protected]