Leviathan è un altro film figlio della oramai celeberrima Teoria della Osmosi delle Idee Hollywoodiane, la TOIH™. È anche un film di confine. Prodotto e concepito (se vogliamo proprio far finta di crederci) nel 1989, proprio lì, sul finire del decennio.
Decennio del quale ho scoperto (grazie, Matteo!) di essere strenuo difensore e araldo. In realtà non ricordo granché del periodo. Sono i miei fan che mi disegnano così…
Nel 1989 nacquero “The Abyss” di James Cameron e anche il meno conosciuto “DeepStar Six” meglio noto come “Creatura degli Abissi” per la regia di Sean S. Cunningham, il papà di “Venerdì 13″, e pareva che tutta Hollywood avesse paura di farsi un bagno, non fosse bastato “Lo Squalo”.
All’epoca avevo più o meno tredici anni. Degli anni ‘80 mi sono rimasti i film [quasi tutti belli] e Sabrina Salerno in piscina che cantava “Boys”, ma questa è un’altra storia.
E, sì, c’era una certa attrice che aveva, su di me, lo stesso effetto che possono avere le veline su un tredicenne, oggi. Un effetto niente male…
Mi sto riferendo ad Amanda Pays che, ne sono certo, amerò per sempre.
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Fittasi alieno
Troppi volti noti in questo film nato già vecchio. Non potendo chiarire mai del tutto a chi spetta la palma del “chi ha copiato chi?” data la concomitanza dei tre film sottomarini, c’è da andare a ritroso e sconfinare nel decennio precedente, il ‘70-’79, per incocciare “Alien” (1979) di Ridley Scott e “La Cosa” (1982) di John Carpenter.
Che sia lo spazio profondo, l’antartide o il fondo degli abissi, l’ignoto, l’essere sconosciuto, l’alieno ostile è sempre in agguato nell’attesa di essere ripescato, tirato a bordo e di mostrarsi al gruppo di vittime elette. Se ci fate caso, l’alieno si limita a esistere. Non è mai malvagio in senso stretto, ma segue la sua natura esiziale per noi altri esseri umani.
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Amanda
In questa base d’estrazione mineraria sottomarina abbiamo Peter Weller (Steven Beck), attore che stimo, ma che ho faticato ad accettare smessi i panni, anzi l’armatura, di RoboCop, il colonnello Trautman, o meglio Richard Crenna che, c’è poco da fare, ma qualunque ruolo abbia ricoperto dopo, in questo caso il medico di bordo, è sempre rimasto il colonnello, c’è il quarto acchiappafantasmi, quello che crede a qualunque cosa purché riceva lo stipendio fisso [un po' come sono ridotto io al momento, ndr] Ernie Hudson, un tale chiamato Sixpack (Daniel Stern), ribattezzato “trepalle” dal doppiaggio italiano, un discreto maniaco sessuale che millanta di averne tre [e Weller dice che è anche disposto a contarle per verificare, dopo avergliele strappate] e c’è lei, Amanda (Willie), munita di mangianastri e cuffie anni ‘80, deliziosa, che se ne va in giro per la base a fare jogging mentre il Leviatano non aspetta altro che di allungare i suoi tentacoli viscidi e bavosi su di lei per assimilarla. C’è di che essere comprensivi.
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Dry for Wet
In questo caso lo scorrere del tempo ha abbondantemente addolcito quelli che erano i miei ricordi di “Leviathan”. Se avessi deciso di scrivere l’articolo senza una nuova visione, probabilmente ve l’avrei presentato come un piccolo gioiellino.
In realtà mi sono accorto, e con questo devo amaramente ammettere, che non è tutta ’sta gran cosa. Assente è infatti una sequenza una che possa dirsi di tensione, in un susseguirsi di situazioni ovvie e di faccette buffe vestite dagli attori che, è ben visibile, forse avrebbero preferito essere altrove.
George P. Cosmatos alla regia, noto anche per aver diretto “Cobra” nel 1986 e l’anno precedente “Rambo II” [ecco che si riaffaccia Trautman...]. Sua, almeno in parte, l’idea non vincente del “dry for wet”: ovvero prediligere location asciutte per un film subacqueo. “The Abyss”, a quel punto, e le sue sequenze mozzafiato, ebbero gioco fin troppo facile.
E non è neppure colpa del budget ridotto. Pochi soldi non sono ragione sufficiente di una pessima realizzazione.
“Alien” andò avanti a forza di modellini e di fondali di plastica nel buio di enormi capannoni, eppure…
In “Leviathan”, non bastasse la sciatteria degli attori che assistono di volta in volta a sempre più oscene apparizioni e rappresentazioni della “creatura” con la stessa espressione di disappunto che si ha quando ci si alza la mattina e si scopre che è finito il caffè, ciò che davvero latita è il mostro. Stan Winston dimentica la sua magia per metter su un baraccone che, confrontato con le genialate di Rob Bottin del 1982 (La Cosa), scompare per la vergogna.
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Che cazzo di giornata!
Le musiche di Jerry Goldsmith, per paradosso, sono divenute molto più popolari di questo film che rimane, a suo modo, un cult per gli appassionati di B-movie. “Leviathan” rientra a buon diritto nella categoria a causa dei deliranti minuti finali, quando i superstiti a mollo nell’attesa di essere ripescati dall’elicottero di soccorso vengono circondati da un paio di squali: una situazione talmente gratuita e forzata che Jones (Ernie Hudson), mentre è affannato a scansare i morsi dei pescicani, si trova ad esclamare incredulo: “Che cazzo di giornata!”. Per l’appunto…
Fondamentale da riscoprire e che all’epoca rimase quasi inosservato è la bella Meg Foster nel ruolo di Martin, l’imprenditrice corporativista senza scrupoli che sancisce la prematura condanna a morte dell’equipaggio per insabbiare la notizia del contagio. I suoi collegamenti video con Peter Weller, mentre con occhi glaciali e freddezza inumana ascolta le suppliche dei minatori e con voce suadente e calma serafica riempie loro le orecchie di menzogne la proiettano direttamente nell’Olimpo dei Migliori Cattivi Cinematografici di Tutti i Tempi.
Eh, sì, mi sa che è tempo di una nuova classifica…
Approfondimenti:
Scheda del Film su IMDb
La recensione di Dead Inside
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